Amnesty International: G20, serve una guida in tema di giustizia

LONDRA, 25 maggio 2010 (IPS) – Amnesty International (AI) chiede al G20 di salvare il mondo dalla crisi della giustizia, dopo che il gruppo dei paesi più industrializzati ed emergenti è riuscito, almeno in parte, a traghettare il mondo fuori dalla recessione.

“Abbiamo lanciato un appello straordinario ai paesi del G20, perché loro stessi hanno messo un'ipoteca sulla leadership globale”, ha detto all’IPS Claudio Cordone, segretario generale ad interim di AI, in occasione del lancio del rapporto annuale. “Se davvero volete essere leader a livello globale, dovete farvi carico anche dei problemi della giustizia”.

L’appello è stato fatto in vista del vertice del G20 che si terrà a Toronto il 26 e 27 giugno. E nel frattempo, Amnesty sta cercando di preparare il terreno per l’incontro della Corte penale internazionale (CPI) il cui inizio è previsto per il 31 maggio nella capitale ugandese di Kampala.

L'organizzazione per i diritti umani chiede che i paesi del G20 mettano ordine prima di tutto in casa propria, per poi poter assumere una vera leadership globale nel campo della giustizia. Sette dei paesi del G20, ha sottolineato Cordone, non hanno aderito alla Corte penale internazionale (in particolare, Russia, Stati Uniti, Cina, India, Indonesia, Turchia e Arabia Saudita).

Secondo Amnesty, l'adesione alla Corte penale internazionale è un segno importante per superare il gap della giustizia. E molti paesi devono anche colmare il divario tra ciò che vedono nella giustizia all’estero e quello che praticano a livello nazionale.

“Purtroppo quando si parla di relazioni internazionali, anche i governi più aperti internamente e dotati di sistemi giudiziari relativamente buoni rischiano ancora di seguire il sistema di due pesi e due misure”, ha detto Cordone. “Come negli Stati Uniti, non c’è un legame diretto tra politiche nazionali e relazioni internazionali”.

Ma l'appello di Amnesty è rivolto a paesi esterni al G20. Nel corso dell’incontro della Corte Penale, AI pensa di fare forti pressioni sui paesi africani. “Chiederemo agli stati africani che non hanno collaborato all’arresto del presidente (Omar Hassan) Bashir del Sudan di farlo – è un loro dovere legale. Ma dovremo anche fare appello ai paesi che non hanno ancora firmato l’adesione alla Corte penale internazionale”, ha detto Cordone.

A suo parere, Amnesty si affida pienamente ai colleghi attivisti, e “a chi all'interno dei governi vuole davvero risolvere la questione della giustizia”.

Superare questo divario è il punto chiave del rapporto di Amnesty di quest’anno, secondo cui ” i governi potenti stanno bloccando i progressi nel campo della giustizia internazionale, calpestando le leggi sui diritti umani, difendendo gli alleati dalle critiche e muovendosi solo per convenienza politica”.

L'incapacità dell'Unione africana di collaborare è andata di pari passo con la “paralisi della CPI sul tema dello Sri Lanka – dice il rapporto – nonostante i gravi abusi, come i possibili crimini di guerra commessi sia delle forze di governo che dalle ‘Tigri per la Liberazione del Tamil Eelam’”.

Intanto, “Israele e Hamas devono ancora dare ascolto alle raccomandazioni del rapporto Goldstone del Consiglio per i diritti umani sulle responsabilità della guerra di Gaza”.

Il gap della giustizia ha “sostenuto un sistema di repressione deleterio”, dice il rapporto. “Dalle indagini di Amnesty International emergono episodi di tortura e altri maltrattamenti in almeno 111 paesi; processi iniqui in almeno 55 paesi; restrizioni alla libertà di espressione in almeno 96 paesi e ‘prigionieri di coscienza’ in almeno 48 paesi”.

Il dossier di AI evidenzia i seguenti dati:

– In Medio Oriente e Nord Africa, l’intolleranza dei governi nei confronti delle critiche è stata sistematica in Arabia Saudita, Siria e Tunisia, con un aumento della repressione in Iran.

– In Asia, il governo cinese ha aumentato le pressioni verso chi osava sfidare la sua autorità, con arresti e intimidazioni di difensori dei diritti umani, mentre migliaia di persone sfuggivano alla forte repressione e alle difficoltà economiche in Corea del Nord e in Myanmar (Birmania).

– Lo spazio per le voci indipendenti e per la società civile si è ridotto in alcune parti dell'Europa e dell'Asia centrale, con illecite restrizioni alla libertà di espressione in Russia, Turchia, Turkmenistan, Azerbaigian, Bielorussia e Uzbekistan.

– In Italia preoccupano gli effetti delle più recenti politiche migratorie, e in particolare il trattamento riservato ai rom, vittime di “sgomberi forzati illegali” a Roma e Milano, e le ripetute espulsioni dei migranti “verso luoghi in cui erano a rischio di violazioni di diritti umani”, come Libia e Tunisia.

– Il continente americano è stato afflitto da centinaia di omicidi illegali da parte delle forze di sicurezza, in paesi come Brasile, Giamaica, Colombia e Messico, mentre negli Stati Uniti persiste l'impunità per le violazioni dei diritti umani nel campo della lotta al terrorismo.

– I governi africani, come quelli di Guinea e Madagascar, hanno contrastato il dissenso con un uso eccessivo della forza e omicidi illegali, mentre Etiopia e Uganda, tra gli altri, hanno represso le voci critiche.

– I gruppi armati e le forze governative hanno violato il diritto internazionale nella Repubblica Democratica del Congo, in Sri Lanka e nello Yemen.

– Nel conflitto di Gaza e nel sud d’Israele, le forze israeliane e i gruppi armati palestinesi hanno ucciso e ferito illegalmente i civili.

– Migliaia di civili hanno subito abusi in un'escalation di violenza da parte dei talebani in Afghanistan e Pakistan, così come degli scontri in Iraq e Somalia.

– Nella maggior parte dei conflitti, le donne e le bambine hanno subito stupri e altre violenze da parte delle forze governative e dei gruppi armati. © IPS