Deterrenza e contenimento, misure possibili contro un Iran nucleare

WASHINGTON, giu, 2013 (IPS) – Seppure l’ideale sarebbe impedire all’Iran di entrare in possesso di armi nucleari, per il momento gli Stati Uniti sono almeno in grado di contenere la loro spinta in questa direzione. È quanto afferma un rapporto da poco pubblicato dal Center for a New American Security (CNA), un influente gruppo di esperti vicino al governo di Barack Obama.

Il rapporto “If All Else Fails: The Challenges of Containing a Nuclear-Armed Iran” (Se tutto il resto fallisse: la sfida di contenere un Iran dotato di armi nucleari) espone una dettagliata “strategia di contenimento” pensata per scoraggiare il ricorso alle armi nucleari di Teheran, o il loro trasferimento verso altri attori esterni, e per convincere altri stati della regione a non sviluppare un proprio armamento nucleare.

“Gli Usa dovrebbero fare ogni cosa in loro potere per impedire che l’Iran si doti di armi nucleari, senza lasciare niente di intentato”, afferma Colin Kahl, principale autore delle 80 pagine del rapporto e alto funzionario del Pentagono per il Medio Oriente durante gran parte del primo mandato di Obama.

“Ma dobbiamo anche considerare la possibilità che le misure preventive, compreso il ricorso alla forza, falliscano”, ha aggiunto in una email all’IPS. “In tal caso, avremmo bisogno di una strategia per gestire e mitigare la minaccia che l’Iran potrebbe rappresentare per gli interessi vitali degli Stati uniti e degli alleati. È su questo che ci stiamo concentrando”.

Il governo, secondo il rapporto, si sarebbe fermamente impegnato ad attuare una politica di prevenzione, compreso il ricorso ad azioni militari intimidatorie se dovessero fallire i metodi diplomatici e le pressioni economiche, a tal punto che non potrebbe esplicitamente adottare nessun altro approccio “senza danneggiare la credibilità di cui ha bisogno per poter gestire in modo efficace la sfida nucleare dell’Iran”.

Nel frattempo Teheran potrebbe sviluppare una “capacità di eludere” diventando inarrestabile, o costruire segretamente un’arma prima che si siano esaurite tutte le misure preventive possibili. Inoltre, un attacco militare degli Stati Uniti o di Israele potrebbe limitarsi a causare danni irrisori al programma nucleare iraniano, finendo per rafforzare la posizione dei più intransigenti nel regime che considerano la deterrenza nucleare l’unica via per assicurarsi la sopravvivenza.

“Di fronte a questi possibili scenari, Washington sarebbe in ogni caso costretta ad orientarsi verso una politica di contenimento, a prescindere dalle proposte attuali”, sottolinea il rapporto, sostenendo che per una strategia efficace Washington deve definire molto bene i suoi obiettivi.

Il nuovo rapporto si aggiunge al numero sempre crescente di materiale sulle possibili opzioni degli Usa nei confronti dell’Iran, che si ostina a negare che il proprio programma nucleare sia inteso alla creazione di un’arma nucleare.

Da sei anni la United States Intelligence Community ripete che l’Iran non ha ancora deciso di costruire un’arma ma che, grazie al suo programma nucleare sempre più sofisticato, sarebbe in grado di costruirne una in tempi molto brevi. Le agenzie di intelligence assicurano di poter individuare qualsiasi tentativo da parte dell’Iran di acquisire una “capacità elusiva”.

Sin dalla sua nomina nel 2009, il governo di Obama ha parlato di un approccio “su due fronti”, circa gli sforzi per dissuadere l’Iran dallo sviluppare un’arma nucleare: da una parte la via diplomatica, con il processo di negoziazione detto P5+1 tra l’Iran e i cinque membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania, dall’altra pressioni economiche esercitate soprattutto attraverso l’imposizione di pesanti sanzioni, multilaterali e unilaterali, volte a “mutilare” l’economia iraniana.

Nonostante le sanzioni abbiano chiaramente danneggiato l’economia irachena, già in difficoltà, Teheran ha finora respinto le pesanti condizioni pretese dal P5+1, come la sospensione di ogni attività nel suo stabilimento sotterraneo di arricchimento dell’uranio di Fordo, e il trasferimento in paesi terzi del 20 percento delle sue scorte di uranio arricchito.

Nonostante ci siano stati degli scambi tra i P5+1 e l’Iran dopo il loro ultimo incontro ad Almaty nel Kazakistan il mese scorso, il processo diplomatico sembra sia adesso in fase di stallo, in attesa delle elezioni presidenziali del prossimo 14 giugno nella Repubblica Islamica.

L’assenza di progressi sul fronte diplomatico, oltre agli sviluppi tecnologici del programma nucleare iraniano – sembra che Teheran possieda quantità di uranio arricchito sufficienti a fabbricare una bomba entro tempi brevissimi, entro la prossima primavera o estate – ha provocato un conflitto latente.

Da una parte, i falchi filo israeliani e favorevoli alla proliferazione, che spingono per sanzioni più severe e “minacce credibili sull’uso della forza” da parte dell’amministrazione, dall’altra le “colombe”, che chiedono di privilegiare l’approccio diplomatico.

Quasi tutto l’establishment estero, compresi ex alti militari, intelligence e diplomatici, sono dalla parte delle colombe; recenti rapporti degli esperti di Iran Project, Consiglio Atlantico, Carnegie Endowment, e Center for the National Interest si sono mostrati sempre più a favore di una maggiore flessibilità degli Usa al tavolo delle trattative.

Ma nel Congresso, dove la lobby israeliana ha molta influenza, si continua a privilegiare il fronte delle pressioni. I provvedimenti discussi in entrambe le camere del Congresso punterebbero alle imprese e alle banche straniere in modo che, se applicati, si imporrebbe un embargo virtuale contro l’Iran.

Nel nuovo rapporto, l’ultimo di una serie di report della CNAS sulla politica iraniana, non si parla di nessuna delle due strategie, sebbene in passato Kahl avesse sostenuto la necessità di maggiore flessibilità degli Usa nelle trattative. Potrebbe però facilmente infiammare dibattito già in corso tra falchi e colombe, sul tema della possibile tolleranza di Washington di fronte ad un Iran dotato di nucleare, qualora le “misure preventive” dovessero fallire.

Una strategia di contenimento, secondo Kahl e i due coautori del documento, Raj Pattani e Jacob Stokes, dovrebbe essere composta di cinque elementi chiave: deterrenza, difesa, disturbo, distensione e denuclearizzazione.

La deterrenza includerebbe, tra i vari passaggi, intensificare le minacce di Washington come rappresaglia contro l’Iran in caso di utilizzo di armi nucleari, oltre ad ampliare l’ombrello nucleare americano ad altri stati della regione in cambio del loro impegno a non sviluppare un proprio impianto.

La difesa dovrebbe mirare ad impedire all’Iran di ottenere un qualsiasi vantaggio dal possesso di armi nucleari, costruendo una difesa missilistica e uno schieramento navale nella regione e rafforzando la cooperazione con i paesi del Golfo e Israele sulla sicurezza.

L’azione di disturbo prevede “contribuire a creare nella regione un clima di resistenza all’influenza dell’Iran”, per esempio trasformando l’Egitto e l’Iraq in aree strategiche, “promuovendo riforme politiche” nel Golfo e aumentando gli aiuti agli elementi moderati tra i ribelli siriani e l’esercito libanese per indebolire Hezbollah.

La distensione è pensata per prevenire ogni possibile crisi legata ad un’escalation dell’Iran in una guerra nucleare, “convincendo Israele a respingere dottrine di prevenzione del nucleare e altre posizioni destabilizzanti sul nucleare”; creando meccanismi di gestione della comunicazione in situazione di crisi e contemplando misure per ricostruire la fiducia con l’Iran: assicurando a Teheran che l’obiettivo di Washington non è “il cambio di regime” e offrendo una via d’uscita per “salvare la faccia” in caso di crisi.

Infine, la denuclearizzazione dovrebbe tentare di arginare il programma nucleare iraniano e limitare danni più ampi al programma di non proliferazione, mantenendo e aumentando le sanzioni contro l’Iran e rafforzando l’ embargo.

Il rapporto insiste sul fatto che una simile strategia comporterebbe costi enormi, arrivando a “raddoppiare i fondi del programma americano di sicurezza per il Medio Oriente”, quindi ostacolando il “riequilibrio” dell’esercito Usa in Asia/Pacifico; “complicando gli sforzi di promozione di riforme” negli Stati arabi alleati; e “aumentando il ruolo delle armi nucleari nella strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, proprio mentre il governo di Obama è orientato nella direzione opposta”.

Il rapporto CNAS è stato subito criticato da molti noti neo-conservatori che da tempo avvertono che Obama, data la sua evidente riluttanza a rischiare una guerra in un altro paese a prevalenza musulmana, avrebbe ritirato la strategia preventiva in favore di “contenimento sotto un altro nome”.

Ma come Kahl fa notare, il gruppo dei falchi neoconservatori Amercian Enterprise Institute ha pubblicato 18 mesi fa un documento in cui si afferma che “contenere e scoraggiare” un Iran dotato di armi nucleari è tra le possibili opzioni “meno peggiori” per la politica americana, se Washington “dimostra di poter scoraggiare sia il ricorso dell’Iran alle armi nucleari che le aggressioni da parte degli alleati terroristi di Teheran”.

La posizione di Kahl riguardo il contenimento dovrebbe riflettersi nella pubblicazione anticipata del nuovo volume dell’ex analista della CIA presso il Brookings Institution Ken Pollak, “Unthinkable: Iran, the Bomb, and America Strategy”. Il libro di Pollak del 2002 “The Threatening Storm: The Case for Invading Iraq”, aveva aiutato a convincere molti liberali e democratici a sostenere l’invasione del paese del Golfo.