L’Egitto non è la Tunisia, però…

IL CAIRO, 17 gennaio 2011 (IPS) – “Dove posso trovare una bandiera tunisina?”. Questa domanda ha invaso le pagine di Facebook, Twitter e i blog egiziani non appena si è diffusa la notizia della fuga del dittatore tunisino Zine el Abidine Ben Ali, costretto ad abbandonare il paese in seguito alla rivolta popolare.

In Egitto comincia l’effetto domino, innescato dalle vicende tunisine. Gli 85 milioni di egiziani rappresentano un terzo della popolazione araba totale. Prima che i tunisini mettessero alla porta venerdì scorso il despota che li governava da 23 anni, l’Egitto, tradizionale trend-setter nella regione, era visto come il primo candidato nel mondo arabo per un cambio di regime provocato da una sollevazione popolare.

Nel giugno 2008, John R. Bradley ha scritto un libro preannunciando una rivoluzione in Egitto. Diceva che il paese si stava lentamente disintegrando sotto la doppia pressione di una “spietata dittatura militare” in casa e di una fallimentare politica mediorientale a Washington.

Nel suo libro “Egitto: La Terra dei Faraoni sull’orlo della rivoluzione”, Bradely sosteneva che l’Egitto fosse “lo stato arabo più barbaro, dove tortura e corruzione sono realtà endemiche”, e che sarebbe stata la prossima vittima di un effetto a catena scatenato dalla rabbia popolare. Il libro era stato vietato in Egitto.

Oggi, al Cairo prevale l’idea che il regime militare del Presidente 82enne Hosni Mubarak sia di gran lunga più spaventoso, e più sottile, del brutale regime di Ben Ali, che ha alienato il suo popolo, e non è riuscito a tenere sotto controllo le sommosse scoppiate il 17 dicembre scorso. Secondo i suoi sostenitori, Mubarak trascina il suo popolo, e ha un’ampia base di sostegno tra cui l’esercito e diversi uomini d’affari.

“Ricordiamo che è sopravvissuto ad almeno tre attentati, e a centinaia di proteste e dimostrazioni contro i prezzi dei generi alimentari e su altre questioni”, dice Khaled Mahmoud, un analista indipendente. “Mubarak è semplicemente più forte di Ben Ali, e gode dell’appoggio dell’istituzione più potente del paese: l’esercito”.

Secondo Mahmoud, durante le proteste Ben Ali avrebbe rivelato l’immagine di un presidente “debole”. “Ha dato prova di scarsa fermezza. I tunisini hanno percepito la sua fragilità e hanno capito che ciò di cui avevano paura era solo un’illusione”.

Quanto a Mubarak, si parla della sua gestione “intelligente” del potere, laddove occasionalmente concede alcune libertà per far sfogare la rabbia popolare.

“Il regime riesce a canalizzare in parte la rabbia attraverso i talk show, tollerando alcune proteste di piazza, articoli critici sui giornali, scioperi e sit-in”, ha spiegato Amr Elshobaki, analista politico del semi-ufficiale Centro di studi strategici di Al-Ahram del Cairo. “Tutto questo aiuta a dar sfogo ad alcune frustrazioni invece di lasciare che si accumulino per poi sfociare in una forza esplosiva”.

Elshobaki sottolinea poi un’altra differenza fra Egitto e Tunisia. I sindacati tunisini si sono in una certa misura accordati con il regime, ma hanno mantenuto la loro struttura e in parte la loro integrità, dice. In Egitto, invece, “sono diventati quasi un’entità di governo. I loro leader fanno parte dello staff di governo”.

Inoltre, il regime egiziano ha usato la religione con astuzia per tenere i giovani sotto controllo. Il movimento islamico salafita, che non crede nell’opposizione ad una guida musulmana, ha trasformato la passione dei giovani in “religione passiva”, a detta di Elshobaki.

I salafiti e la Chiesa cristiana copta sono entrambi filo-governativi. “Non vedo una grande somiglianza tra Egitto e Tunisia”, dice Elshobaki.

Ma in molti non la pensano allo stesso modo: secondo diversi attivisti dei diritti umani, blogger, islamisti, alcuni professori universitari e giornalisti indipendenti, l’Egitto starebbe preparando la rivolta. La Tunisia darà un forte impulso a questa idea, sostengono.

“Come Ben Ali, Mubarak non offre al suo popolo altro che tirannia, leggi d’emergenza e truppe armate per la sicurezza nazionale. Si somigliano perché nessuno vuole e a nessuno piacciono queste cose”, dice Ibrahim Issa, editor del quotidiano online Al-Dostor, e uno dei maggiori critici del regime egiziano.

“I tunisini ci hanno dimostrato che il cambiamento arriverà, inevitabile, per spazzare via tutti i tirapiedi di Washington e di Tel Aviv in tutti gli stati arabi”.

Anche altri vedono un’affinità tra le crudeli strategie dello stato di polizia di entrambi i paesi, che in parte avrebbero contribuito alla rivolta tunisina. “L’espulsione di Ben Ali mostra la fragilità del suo sistema di governo, che è uguale in molti altri paesi arabi e anche qui in Egitto”, dice Bahai El-Deen Hassan, capo del Centro per i diritti umani del Cairo. “Gli stati di polizia non sono sostenibili”.

Imbavagliare i sindacati e i movimenti dei lavoratori, arginare i partiti politici e reprimere le organizzazioni della società civile non fa vivere a lungo un regime.

“Le ragioni della rivolta sono le stesse. Il popolo è lo stesso. Il clima generale è lo stesso”, afferma Abdelmonem Amer, editor di Arab News, di orientamento islamico. “Il tiranno tunisino si è dato alla fuga. Adesso è la volta del faraone d’Egitto. Oggi la Tunisia, domani l’Egitto”. © IPS