AFRICA: CPI organo super partes oppure ostacolo ai processi di pace?

Equilibri.net, 12 luglio 2010 (Equilibri) (IPS) – La Corte Penale Internazionale è uno degli istituti internazionali che maggiormente sembra sconvolgere il concetto di sovranità nazionale, sebbene delineato come uno strumento complementare rispetto al sistema giuridico interno degli Stati membri.

Il reale svolgimento dell’opera della Corte sembra essere ostacolato da due ordini di fattori: gli interessi nazionali di quei Paesi che si rifiutano di aderire al Protocollo Istitutivo e che negano ufficialmente l’importanza del ruolo della Corte; i limiti giuridici posti alla giurisdizione della Corte dal suo stesso Statuto costitutivo.Osservando la mappa geografica dei giudizi in corso, tutti legati a Paesi africani, il ruolo della Corte risulta strategico nell'impedire il perpetrarsi di sanguinosi conflitti interni, ma lascia al contempo adito al sospetto di una sua strumentalizzazione per consentire intromissioni esterne in Paesi istituzionalmente deboli.

La Corte Penale Internazionale: nascita e regole di un istituto di rilevanza internazionale

Per punire crimini di grande portata e particolare violenza, la Comunità Internazionale ha nel tempo creato tribunali ad hoc: i casi della Jugoslavia, del Ruanda e della Sierra Leone sono precedenti illustri di soluzioni giudiziarie ex post ad eventi drammatici che hanno sconvolto non solo i Paesi direttamente legati agli eventi, ma anche l'opinione pubblica internazionale. Per evitare di doversi trovare di nuovo nella necessità di creare un organismo giuridico per sentenziare su eventi simili, la comunità internazionale ha sentito la necessità di creare un organo indipendente che esista a priori.

Dopo la firma dello Statuto Istitutivo (Roma, 1998), la Corte ha potuto realmente cominciare ad operare solo nel 2002, al raggiungimento del numero minimo di firme previsto dal Protocollo per la sua entrata in vigore. Lo Statuto individua dettagliatamente i soggetti e le materie che possono essere oggetto di giudizio: la giurisdizione della Corte, e la sua capacità di agire, risultano quindi molto specifici e limitati. L'ampliamento di queste facoltà si basa sempre sulla concertazione, per consensus, tra i vertici dei Paesi membri, risultando di difficile mediazione.

All’articolo 5 dello Statuto, sono indicati i 4 reati oggetto della giurisdizione della Corte: genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimine di aggressione. Di questi, solo l’ultimo reato non era ancora stato oggetto di un processo dinanzi alla Corte, in quanto mancava fino ad oggi una definizione del reato condivisa dai firmatari. Nonostante questa sia stata recentemente formulata durante l'incontro di Kampala del 2010, a tutt'oggi il reato rimane comunque non perseguibile.

Per quanto riguarda, invece, i soggetti che possono essere sottoposti a giudizio, il Protocollo stabilisce che questi debbano essere cittadini di uno Stato membro dello Statuto, o cittadini di uno Stato terzo rispetto allo Statuto, ma che hanno commesso l’illecito, di cui all’Art. 5, sul territorio di uno Stato membro. Un caso può inoltre essere portato davanti alla Corte in seguito a deferimento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (secondo il Capitolo VII della Carta ONU), come avvenuto nel caso del Sudan per quanto riguarda gli imputati per i crimini commessi in Darfur. In tutti e tre i casi, il soggetto da deferire alla Corte deve essere un individuo.

A latere di ciò, la Corte richiede il sussistere di due ulteriori elementi per esercitare la propria giurisdizione nel merito: l'inserimento della condotta criminosa in un progetto politico di più ampia portata ; l'impossibilità reale o deliberata, per volontà dei vertici o per motivi interni, di porre sotto giudizio i presunti colpevoli. In pratica, l’esistenza della Corte non deroga al potere di giudizio interno ma è complementare ad esso, e lo sostituisce in particolari circostanze. In ultimo, la Corte non giudica su illeciti commessi prima del 2002, anno dell’entrata in vigore dello Statuto, o dell'anno di ratifica dello Statuto da parte di uno Stato membro.

I Casi sottoposti al giudizio della Corte

I casi in giudizio davanti la Corte Penale Internazionale sono cinque, tutti legati al continente africano. Questa peculiarità geografica ha tuttavia generato nel tempo non poche polemiche. Dei cinque Paesi in oggetto, in quanto il fatto si è svolto sul loro territorio, solo il Sudan non ha ratificato lo Statuto di Roma e non fa parte in alcun modo ( anzi lo rigetta apertamente ) del processo di creazione e allargamento della Corte. Gli altri quattro Paesi (Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centro Africana e Kenya) sono invece membri, e tra questi 3 (Uganda, RDC e RCA) hanno direttamente invocato l’intervento della Corte per giudicare su particolari situazioni interne. In questi casi gli Stati hanno volontariamente demandato la loro potestà nazionale ad un’autorità giuridica sovranazionale poiché, come da loro affermato, impossibilitati a perseguire correttamente i fautori dell’illecito. Per quanto riguarda il Kenya, invece, la situazione appare diversa. Infatti per motu proprio (secondo l'art. 15 dello Statuto) la Corte ha deciso di indagare sui fatti sanguinosi accaduti dal 2005 al 2009.

Il caso Sudanese

Il caso più emblematico è sicuramente quello sudanese. In tempi diversi Al Bashir ed altre 5 persone, per lo più militari o burocrati, sono stati messi sotto inchiesta grazie ad una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il Sudan si è, infatti, rifiutato di ratificare lo Statuto di Roma: per arginare l’impasse giuridica, a fronte della gravissima crisi umanitaria che sconvolge il Darfur, il Consiglio ha ritenuto opportuno votare la risoluzione numero 1593 del 2005, per permettere alla Corte di estendere la propria autorità anche sui crimini sudanesi. L’atto del Consiglio di Sicurezza, che ha tra l’altro visto l’astensione degli Stati Uniti d’America – benchè favorevoli a perseguire giuridicamente Al Bashir – ha creato una grande querelle internazionale. Infatti, da un lato, si ha la messa sotto accusa di un Presidente in carica, nonché rieletto durante il 2010 quando già indagato; dall’altro, la scelta da parte dei membri del Consiglio di Sicurezza di intervenire in un caso di politica interna. Il fattore più problematico è l’imputazione di Omar Al Bashir e l’emissione di un mandato di arresto internazionale nei suoi confronti (marzo 2009).

Secondo lo Statuto di Roma, gli Stati membri sono vincolati a rispettare gli atti della Corte e quindi, ad esempio, a dare esecuzione al mandato di arresto nei confronti di Al Bashir nel momento in cui questo transiti sul proprio territorio. In realtà, la scelta della Corte di arrestare Al Bashir, benché supportata da alcuni organismi internazionali come la Nato o organizzazioni importanti come Amnesty International, è stata contrastata, e boicottata, da molti altri organismi e Stati. Soprattutto organizzazioni come l’Unione Africana e la Lega dei Paesi Arabi si sono pronunciate in modo sfavorevole a tale decisione. L’eccezionalità dell’imputazione da parte di un organismo internazionale di un Capo di Stato, nel pieno esercizio delle sue funzioni politiche, è stato considerato un atto lesivo della libertà d’azione e della sovranità dello Stato Sudanese, oltre che un motivo di ulteriore destabilizzazione di un Paese già di per sé instabile, a causa di movimenti ribelli interni e problemi di confine con i Paesi limitrofi (Ciad). Il dissenso è stato tale che il Presidente, dal marzo 2009 in poi, si è potuto muovere quasi liberamente in diversi Stati membri o meno, tra i quali Egitto, Qatar e Nigeria, senza essere arrestato.

In aggiunta a queste polemiche il Presidente Al Bashir, presentandosi alle elezioni nel 2010, è riuscito a conquistare nuovamente la carica presidenziale rimarcando, nonostante le accuse di brogli da parte degli osservatori, la sua forza e posizione all’interno del centro di potere sudanese.

Il ruolo della Corte in Africa ed il dilemma posto dall’articolo 98 dello Statuto

Il ruolo della Corte in Africa sembra emblematico, poiché sul continente si concentrano tutti i casi perseguiti dalla Corte. Il dilemma sul perché di tale concentrazione è chiarificato da due fattori: primo, la Corte valuta in maniera preventiva ogni richiesta di indagine nella sua portata e nei suoi elementi probatori; secondo, la Corte è un organo complementare al normale diritto interno.

La Corte, infatti, agisce in caso di “mancanza di volontà” di perseguire il reo da parte dello Stato in cui il reato si compie (“unwilling”) o nel caso in cui lo Stato non sia nella condizione di perseguire il reo (“unable”). Queste due possibilità si manifestano maggiormente in quei Paesi africani dove guerre sanguinose, o problemi legati alla democrazia, rendono impossibile il normale svolgimento del sistema giuridico interno. Senza la Corte molti Paesi, ad esempio Uganda, RDG e RCA, che hanno direttamente chiesto l'intervento della stessa, non sarebbero stati in grado di fare giustizia su eventi di drammatica importanza.

Prendendo in considerazione lo stato interno dei Paesi in questione, si può evincere che il Paese non avrebbe infatti avuto la possibilità materiale di perseguire i rei, perché sprovvisto di un apparato adeguato, come uffici, scorte per i testimoni giudici, segretari, risorse economiche.

Inoltre la vastità degli eventi spesso influisce doppiamente sul sistema giuridico interno, in quanto gli stessi giudici, o personale addetto, potrebbe essere stati vittima delle violenze, o fautori delle stesse (si pensi al caos ruandese dove le violenze hanno interessato ogni strato della popolazione). Allo stesso tempo gli imputati, nell'ottica di sfuggire alla giustizia, potrebbero minacciare e uccidere giudici, personale giuridico e testimoni. Allo stesso tempo l'azione della Corte, aperta alla collaborazione con governi e organizzazioni locali, riduce di molto la diffidenza dei Paesi in questione, aumentando la fiducia reciproca e chiarendo il suo ruolo di supporto ed aiuto, e non di organo supremo e delegittimante della sovranità.

Al ruolo positivo della Corte in Africa si possono contrapporre due elementi negativi: da un lato, la collisione con i processi di pace e le decisioni di amnistiare i combattenti; dall’altro, l'esistenza dell'articolo 98 dello Statuto, che permette agli Stati membri di creare particolari immunità per cittadini di Stati terzi. Il primo elemento è un dato di fatto.

Molti Paesi africani, per chiudere un periodo di guerra interna, hanno deciso di stipulare accordi di pace con le parti avverse che includono amnistie per i belligeranti: i casi del Sud Africa e dell'Algeria sono emblematici. Il problema è che la Corte non prevede questa clausola nel suo Statuto e quindi non prende in considerazione questa eventualità. Non essendo un organo che mira alla pace ma bensì alla giustizia, la Corte potrebbe valutare la clausola di amnistia, o di un trattato di pace, come una non volontà dello Stato a perseguire i responsabili delle violenze, ed in questo caso potrebbe decidere di intervenire.

Questo intervento, simile a quello in Uganda o Sudan, potrebbe nuocere al processo di pace e interrompere le trattative. In questo caso le valutazioni sono diverse e dipendono dall'ottica di voler fare prevalere la pace o la giustizia. Nonostante ciò il ruolo della Corte non si può considerare come ostacolo alla pace, o lesivo della stessa, visto gli obiettivi di giustizia che persegue.

Purtroppo in situazione complesse come quelle africane, in cui Paesi interi sono tenuti in scacco per lunghi periodi da ribelli e signori della guerra, il processo di pace deve passare attraverso una contrattazione lesiva della giustizia stessa. La valutazione di quale delle due opzioni sia più corretta è molto difficile.

Per quanto riguarda il secondo elemento, l'articolo 98 dello Statuto, il perfezionamento di particolari accordi per la concessione dell'immunità a cittadini di Stati terzi sottopone gli Stati più deboli, quali quelli africani, a forme di pressione talvolta ricattatorie. E' il caso degli accordi tra Stati Uniti d'America ed Egitto, Uganda e Senegal. I cittadini americani, soprattutto personale del governo americano presente in questi territori non potranno essere consegnati alla Corte Penale Internazionale senza previo consenso del governo statunitense. Quindi, in caso di reati di cui all'art.5, questi cittadini potrebbero sfuggire alla giurisdizione della Corte ed essere giudicati dal sistema giuridico americano.

I pro ed i contro, insieme alle giustificazioni, della posizione americana sono diversi e insindacabili, in quanto espressione di una sovranità nazionale. Rimane il fatto che una potenza internazionale, quali sono gli Stati uniti, si oppone al riconoscimento di uno strumento di giustizia internazionale che nasce dal consenso di molte nazioni, ledendone l'efficacia.

Allo stesso tempo, si evidenzia la scelta di utilizzare strumenti di pressione di carattere economico, o di altro tipo, per ottenere l'immunità dei propri cittadini in Stati sovrani che hanno accettato la giurisdizione della Corte

Conclusioni

La Corte Penale Internazionale sembra avere un ruolo di spicco nell'amministrazione della giustizia in Africa. Nonostante molti Stati africani rifiutino di aderire allo Statuto, la possibilità che il Consiglio di Sicurezza possa investire la Corte di una questione sembra aprire delle possibilità maggiori per risolvere questioni spinose, come quella del Darfur. Nella realtà dei fatti, tuttavia, anche il Consiglio di Sicurezza è un organo paralizzato da posizioni ed interessi molto differenti. Allo stesso tempo, la situazione interna di molti Paesi non permette di privarsi dell'ausilio della Corte Internazionale, in assenza di valide alternative sul territorio. É indubbiamente auspicabile che la presenza africana all'interno della Corte possa aumentare, pur senza intaccare l'indipendenza ed imparzialità dei membri dell'organo. Rimane purtroppo più incerta la capacità di alcuni Stati membri di resistere alle richieste di Paesi, come gli Stati Uniti, di creare particolari sacche di immunità. Risulta questa, e non tanto la ratifica dello Statuto di Roma, la vera deroga alla sovranità nazionale che molti Stati africani sono chiamati a subire per non rinunciare ad imprescindibili aiuti economici e sociali. © Copyright Equilibri