AIDS: I bambini del Mozambico, vittime dell’Hiv e del pregiudizio

MAPUTO, 5 dicembre 2006 (IPS) – In jeans e maglione, Julia* guarda timidamente la madre che parla al posto suo. Durante l’intervista però, acquista fiducia e inizia a parlare anche lei.

”Non ho mai pianto, ma ho pensato che sarei morta. Era il 12 dicembre 2005”, ha continuato senza esitazione. La madre le sorride, e poggia le mani sulle mani serrate di Julia, in segno di incoraggiamento.

La donna pensa che Julia potrebbe essere stata contagiata dal virus con una trasfusione di sangue che risale a circa dieci anni 10 fa, quando aveva la malaria. Julia è l’unica sieropositiva della famiglia.

La bambina prosegue parlando in portoghese, la lingua ufficiale del Mozambico. “La psicologa con un disegno poi mi ha spiegato come il virus aveva attaccato le mie cellule. Per questo mi sono ammalata. Pesavo appena 49 chili e il totale delle mie cellule CD4 era solo cento”.

Il CD4 misura il numero di cellule immunitarie; quando questo numero scende sotto i 200, la persona colpita non è più in grado di combattere efficacemente i virus, e per prolungarne la vita servono i farmaci anti-retrovirali (ARV).

”La psicologa mi ha spiegato il modo in cui i farmaci anti-retrovirali attaccano l’Hiv nel mio corpo”.

Julia ora è in cura con gli ARV, e dice che ricorda da sola di prenderli ogni mattina alle otto e ogni sera, sempre alle otto. La sua salute è migliorata, ora per lei una delle sfide più grandi è come vivere in una società che stigmatizza le persone contagiate dall’Hiv/Aids, anche se sono bambini. Il mistero che avvolge il virus contribuisce alla crescita del tasso di Hiv/Aids in Mozambico. Si stima che il 16,2 per cento della popolazione dai 15-49 anni sia sieropositiva, e Julia è tra i 100.000 bambini sotto i 15 anni che hanno contratto il virus.

La maggioranza dei bambini con l’HIV è stata infettata dalla madre durante gravidanza, parto o allattamento. La maggior parte dei piccoli non ha dovuto affrontare il trauma psicologico di vivere con il virus perché sono morti entro i primi due anni di vita.

Tuttavia, grazie all’introduzione degli ARV, i bambini sieropositivi vivono più a lungo, ma i giovanissimi come Julia, che hanno contratto il virus in età più avanzata, si portano dietro un enorme peso psicologico.

Julia frequenta il Day Hospital pediatrico nella capitale, Maputo, aperto nel maggio 2004 con l’aiuto dell’ambasciata francese e del Fondo Delle Nazioni Unite per l’infanzia; la struttura garantisce cure ambulatoriali ad oltre 2.000 bambini che vivono con l’Hiv.

Il motivo fondamentale per cui i bambini in cura con gli ARV muoiono è che i loro genitori li portano troppo tardi, dichiara la Dottoressa Paula Vaz, direttrice dell’ospedale. La ragione, aggiunge, è lo stigma.

Secondo Vaz, “i bambini accettano il loro status di sieropositivi più facilmente dei loro genitori; questi ultimi spesso negano la malattia dei loro figli”.

Ricorda come un giovanissimo paziente di 11 anni sia stato espulso dalla scuola per il suo status di sieropositivo. “Mi sono arrabbiata moltissimo quando l’ho saputo”.

Tuttavia, ha deciso di organizzare una giornata della consapevolezza su Hiv/Aids a scuola per formare insegnanti e direttori didattici. Lei e il suo staff fanno conferenze, e organizzano attività ludiche tra cui un torneo di calcio.

”Ho riconosciuto alcuni dei miei pazienti a scuola. L’atmosfera era di grande allegria”, ha proseguito. Secondo Vaz, i bambini accettano facilmente la terapia. “Ad oggi, il nostro più grande successo è la percentuale di sopravvivenza dei bambini, che – dopo due anni di somministrazione degli ARV – è arrivata al 95 per cento. Possiamo farcela, ma ci vuole una squadra motivata”.

L’ospedale offre un pacchetto che include trattamento e supporto medico, psicosociale e nutritivo. Solo pochi bambini fanno una terapia ARV di “seconda linea”, e sono casi di somministrazione degli ARV in cui si riscontra resistenza dei pazienti o gravi effetti collaterali.

Consulenza e aiuto psicosociale per i bambini costituiscono il nucleo della terapia al Day Hospital pediatrico. Due volte a settimana vengono in ospedale artisti che lavorano con i piccoli per disegnare le bellissime opere che si vedono sui muri dell’ospedale. “Aiuta i bambini a tirar fuori emozioni che talvolta non possono esprimere a parole”, ha sottolineato Vaz.

Julia ama dipingere e scrivere poesie sull’Hiv/Aids e sulle sue sensazioni. “Il messaggio delle mie poesie è che noi non siamo soli, perché ci sono tanti nelle nostre stesse condizioni. Io mi sento normale, come gli altri bambini”.

Secondo la psicologa dell’ospedale, Caterina Mboa Ferão, oggi che esiste una cura, è diventato più facile dire ai bambini che sono sieropositivi. “Prima Hiv significava morte; ma ora possiamo parlare di vita, e vedere crescere i nostri piccoli”.

Può essere ancora difficile decidere quando dire a un bambino che è sieropositivo. Ferão lavora con i genitori per valutare insieme se il figlio è pronto a ricevere questa informazione. In genere per loro è meglio saperlo il più presto possibile.

”Raccomandiamo ai genitori di preparare i propri figli e di scegliere le risposte giuste alle loro domande”, riferisce Ferão. “Tutto è più difficile per un bambino quando capisce che gli si sta nascondendo qualcosa”.

Quando le viene chiesto di Julia, risponde che lei “ha accettato la sua situazione facilmente, e cerca di guardare all’’Hiv in maniera positiva”.

Ma Julia sa che tanta gente non la pensa come lei sull’Hiv/Aids. “Solo la mia famiglia sa che sono sieropositiva. Non lo dico né ai miei amici né alla maestra”.

”La mia psicologa mi ha detto che a causa del pregiudizio, non devo dire niente a nessuno se non dopo averne discusso con mia madre o con lei, e parlare solo se ci fidiamo davvero di quella persona”, ha aggiunto, a testa alta.

*Il mome è stato cambiato per proteggere la privacy.