SVILUPPO: Le buone intenzioni degli aiuti umanitari

SEATTLE, USA, 29 dicembre 2011 (IPS) – Cercare di migliorare il mondo è una sfida che sembra impossibile, eppure molti sono disposti ad affrontarla con passione.

Miriam Gathigah/IPS Miriam Gathigah/IPS

Miriam Gathigah/IPS
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Secondo uno studio del 2009 condotto dalla Stanford University, ogni 10-15 minuti nasce una nuova organizzazione no profit solo negli Stati Uniti. Il risultato è che esiste una grandissima varietà di programmi di aiuti, tanti quanti sono i colori dell’arcobaleno.

Quanto potrà essere difficile? Trova un problema e risolvilo.

Problema: l’oppressione delle donne in Afghanistan. Soluzione: Favorire l’empowerrment femminile costruendo un centro commerciale riservato alle donne, perché abbiano un reddito e acquisiscano esperienza nel commercio.

Problema: milioni di Africani non hanno accesso all’acqua potabile. Soluzione: installare in tutto il continente delle pompe azionate da una giostra così che i bambini possano distribuire acqua potabile mentre giocano.

Problema: In Thailandia milioni di bambini sono orfani a causa dello tsunami. Soluzione: costruire degli orfanotrofi.

Gli aiuti umanitari sono davvero così semplici? Il centro commerciale per le donne in Afghanistan non ha mai preso piede, e si è riempito di uomini che vendono e acquistano materiale per l’edilizia.

Le pompe per l’acqua sono state oggetto di critiche da parte dell’Unicef, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia, e l’organizzazione umanitaria che se ne occupava ha deciso di sospendere il progetto.

Nel caso della Thailandia, i due orfanotrofi costruiti sono rimasti vuoti perché la maggioranza dei bambini sono stati adottati dai parenti o dal governo. A queste strutture venivano affidati molti figli di famiglie povere, che non riuscivano a dargli da mangiare e usavano gli orfanotrofi come un asilo nido.

Che cosa è andato storto? Forse le intenzioni non sono state orientate nel modo giusto?

Non secondo Sandra Schimmelpfennig, autrice del blog Le buone intenzioni non bastano. Esperta consulente di fundraising, è stata coordinatrice di un’organizzazione umanitaria in Thailandia dopo lo tsunami del 2004 ed è stata testimone del fallimento degli orfanotrofi. Lei stessa afferma che l’insuccesso di questo tipo di iniziative è molto comune.

“Un’elevata percentuale (delle organizzazioni in Thailandia) non segue un modello ben studiato”, spiega. “La maggior parte è guidata da persone senza esperienza. Forse solo il 10 per cento cerca davvero di imparare dai propri errori”.

Secondo Schimmelpfennig, esistono diverse forme di cattiva gestione dei progetti, ma la maggior parte trascura le fasi essenziali, come la valutazione preventiva delle necessità, la consultazione di esperti nelle comunità locali, e la realizzazione di un onesto bilancio finale.

Ma a volte l’ambizione e l’originalità di un’idea fanno sì che il progetto perda il contatto con la realtà.

Un esempio è il fallimento del progetto Playpump International in Africa. L’organizzazione prevedeva di installare 4mila pompe a carosello entro il 2010. L’originalità dell’iniziativa attrasse finanziamenti di milioni di dollari dal governo statunitense e altri donatori, tra cui diversi personaggi famosi.

Ma il progetto fallì a causa degli elevati costi delle pompe, la loro tendenza a rompersi, la difficoltà di utilizzo e la mancanza di dialogo con le comunità locali, secondo il rapporto Unicef del 2007. Nel marzo 2010, Playpump International chiuse e donò i suoi beni.

Per quanto riguarda il centro commerciale per le donne costruito a Kabul nel 2007, il prezzo elevato dei prodotti e la scelta della location in una zona di difficile accesso ne hanno ostacolato il funzionamento. Fondato dall’organizzazione umanitaria tedesca GTZ e dall’agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale, è stato in pratica abbandonato nel 2009.

Altre iniziative come 1millionshirts.org, che puntava a raccogliere un milione di magliette destinate agli africani poveri, si sono rivelate fallimentari per la mancanza di una valutazione preventiva delle necessità. I fondatori non erano mai stati in Africa o non avevano mai preso parte ad un progetto umanitario internazionale. L’iniziativa fu duramente criticata e infine sospesa lo scorso anno.

Questo tipo di progetti hanno in comune dei promotori definiti da Schimmelpfennig “Whites in Shining Armor”, (bianchi in armatura brillante): stranieri che pensano di trovarsi in una posizione speciale per poter aiutare i meno fortunati e si precipitano a risolvere i problemi di altre comunità, di cui in realtà non conoscono i veri bisogni e le circostanze specifiche. Nella realtà la situazione è molto più complicata.

Robert Bortner, fondatore e direttore della rete Community Empowerment Network (CEN) ha un’idea diversa degli aiuti. Per lui, non si tratta solo di soddisfare le necessità concrete.

“Occorre identificare i bisogni alla radice”, ha detto. “Le persone sul campo conoscono i loro problemi molto meglio di noi, ma a volte non ne comprendono le cause”.

La CEN, con sede nello stato di Washington, lavora per lo sviluppo sostenibile nell’Amazzonia brasiliana, prima di tutto facendo in modo che le comunità locali stabiliscano le loro priorità, e poi aiutandole a raggiungere gli obiettivi prefissati fornendo consulenza e formazione, e sostenendole nello sviluppo di un’economia locale.

Ma Bortner conosce bene la tendenza a voler aiutare le comunità dando loro semplicemente delle “cose”.

“È molto più facile finanziare delle ‘cose’, piuttosto che qualcosa di sociale o psicologico. Però bisogna essere onesti e vedere cosa funziona e cosa no”.

Ma molte organizzazioni sono reticenti di fronte a questo tipo di valutazioni: tendono a sottovalutare i fallimenti e preparano rapporti finali in cui risaltano solo gli aspetti positivi.

“Tutte le organizzazioni di aiuti temono la cattiva pubblicità”, spiega Schimmelpfennig. “Visto che i donatori non possono vedere da vicino i risultati del lavoro che svolge la maggior parte di questi gruppi”, le “donazioni funzionano prevalentemente in base alla reputazione dell’organizzazione e al modo di promuovere la sua attività. Se ammettono degli errori, questi vengono resi pubblici e i finanziatori cominciano a chiedersi se davvero vale la pena investire su di loro”.

Alcuni donatori, aggiunge, non controllano nemmeno le valutazioni, considerandole un inutile spreco di denaro.

Ma ultimamente comincia a prendere piede una maggiore tendenza a voler identificare i fallimenti. Il sito internet admittingfailures.org, creato da Ingegneri Senza Frontiere – Canada, permette agli utenti di cercare e apportare dati sui progetti di aiuti fallimentari.

“Nascondendo i nostri errori, siamo condannati a ripeterli e stiamo soffocando l’innovazione” si legge sul sito. “Invece, ammettendo gli errori e condividendoli pubblicamente… contribuiamo ad una cultura dello sviluppo in cui l’errore è considerato fondamentale per il successo”.

Prima di ideare un progetto umanitario, bisogna conoscere le persone che si stanno aiutando e le loro necessità e creare partnersbhip con le comunità locali, aggiunge Bortner.

Shimmelpfennig raccomanda una verifica specifica per capire se un progetto può funzionare, attraverso la consultazione di blog di altre organizzazioni di aiuti, per vedere che cosa non ha funzionato. Consiglia anche di visitare il suo sito internet, dove è possibile trovare alcune idee su come cominciare col piede giusto. @ IPS