Le sfide delle imprese ‘multilatine’ che si globalizzano

BUENOS AIRES, 30 marzo 2011 (IPS) – La crescita economica in America Latina spinge sempre più gruppi industriali locali ad espandersi nel resto del mondo, incluso in paesi del Nord industrializzato che prima sembravano irraggiungibili.

Ma questa espansione, in altre epoche guidata da Stati Uniti, Giappone, Germania e altri paesi europei, porta ad uno sviluppo integrale nei paesi di origine o si limita ad aumentare il divario nelle ineguaglianze rendendo più ricchi i padroni delle imprese?

“È una preoccupazione legittima”, ha ammesso l’economista Bernardo Kosacoff, direttore del Centro imprese, concorrenza e sviluppo della privata Università di San Andrés, in Argentina. Ma ha subito chiarito che “sarebbe sbagliato pensare di produrre meno ricchezza per non aumentare questi divari. Bisogna proporre politiche e norme affinché i benefici non diano solo profitti alle imprese ma servano allo sviluppo del paese”, ha avvertito.

Kosacoff, ex direttore dell’ufficio argentino della Commissione economica per America Latina e Caraibi (Cepal), ha sottolineato che per crescere, generare occupazione e valuta e pagare le tasse, le imprese non possono limitarsi al mercato nazionale.

“Indubbiamente, l’internazionalizzazione apporta sviluppo, non solo nella sua prima fase, quando le imprese esportano beni, ma quando cominciano a innovare, a creare reti di fornitori e posti di lavoro, questo può avere un effetto sul paese”, ha affermato.

L’Argentina è stata la prima ad avviare questo processo, ma adesso anche il Brasile, con la maggior parte delle sue 500 “multilatine”, seguito dal Messico, le ha strappato il primato, ha detto.

Da circa dieci anni, vengono definite multilatine le imprese transnazionali o multinazionali che nascono in un paese latinoamericano e hanno attività in almeno due continenti, e che durante il processo di espansione i loro mercati si sono consolidati come attori della globalizzazione economica.

Imprese brasiliane, come l’azienda mineraria Vale o la petrolifera Petrobrás, e messicane, come Cementos Mexicanos (Cemex) o il panificio industriale Bimbo, non solo predominano nella regione, ma si sono anche spinte a conquistare i mercati di Stati Uniti e di altri continenti.

E non si tratta di un fenomeno basato esclusivamente sullo sfruttamento di risorse naturali come minerali o cereali, ma comprende anche campi come la cosmetica, la gastronomia, le telecomunicazioni, l’aeronavigazione o la fabbricazione di aerei.

L’ondata di imprese latinoamericane divenute attori globali non è neanche esclusiva delle maggiori economie della regione. Ci sono multilatine anche in Colombia, Cile, Guatemala o Perù.

“L’emergere delle ‘global latine’ è stato favorito da un contesto generale di crescita economica in America Latina e dagli altri prezzi dei prodotti di base”, sostiene Lourdes Casanova nel suo libro “De Multilatinas a Global Latinas”.

Il fenomeno si è incrementato quando diverse imprese hanno cominciato a internazionalizzarsi alla ricerca di nuovi mercati che giustificassero l’aumento della scala produttiva, dal 2002, quando la regione ha cominciato a crescere a una media del cinque percento.

La ricerca di Casanova, spagnola e docente di strategia nella Scuola di Affari INSEAD, in Francia, è stata finanziata dalla Banca interamericana di sviluppo.

In un’intervista telefonica con l’IPS, l’esperta ha parlato delle nuove sfide delle multilatine. Ha spiegato che i fondatori di queste imprese “avevano una visione del loro paese che si è andata perdendo nel tempo e che bisogna recuperare”.

“La volatilità che ha caratterizzato la regione per molti anni ha costretto le grandi imprese latinoamericane ad occuparsi del breve periodo; sul lungo periodo bisogna pensare invece allo sviluppo della classe media”, ha suggerito.

L’esperta ha ricordato che la crescita delle grandi potenze emergenti come Cina o India si basa sullo sviluppo di questi settori, che vorrebbero potersi permettere una casa tramite un mutuo, comprare automobili, computer o telefonia mobile.

È un’espansione non più basata sulla manodopera a basso costo, ha spiegato. “Mettendo da parte la questione etica del gravissimo problema della povertà e della disuguaglianza, che cosa è più conveniente? Esportare soia in Cina o stimolare la crescita della classe media?”, ha chiesto.

È vero che queste imprese, anche chiamate “translatine”, si sono globalizzate dopo aver imparato a uscire indenni da ogni tipo di difficoltà nel loro paese. Adesso, alcune hanno filiali in 30 paesi, comprano imprese all’estero, investono e creano occupazione a livello nazionale e transnazionale.

Si distinguono dalle corporation dei paesi sviluppati per il tipo di gestione familiare, per la centralizzazione aziendale, per una leadership forte che favorisce decisioni rapide e per la capacità di innovazione.

Le multilatine hanno imparato a sopravvivere in ambienti economici non sempre favorevoli, e come nessun altro sanno navigare in acque turbolente, ha commentato Casanova.

La sua ricerca ha esaminato a fondo 11 imprese latinoamericane, fra cui grandi multinazionali messicane come Bimbo, con 100mila dipendenti in 17 paesi; Cemex, con 57mila impiegati in 33 paesi, e l’impresa di telecomunicazioni América Móvil, con più di 200 milioni di utenti in 18 paesi.

Dopo la pubblicazione del libro, Bimbo, il panificio industriale più grande dell’America Latina, si è espanso negli Stati Uniti dove ha acquisito SaraLee Corporation, una importante azienda di distribuzione del pane negli Usa.

Casanova ha esaminato più nei dettagli alcuni casi brasiliani, come quello dell’impresa aeronautica Embraer, o l’azienda cosmetica Natura, oltre a Petrobrás e Vale, queste due molto diffuse in tutti i continenti.

Sono rimaste fuori dallo studio altri grandi multinazionali del Brasile, come il gruppi siderurgico Gerdau, undicesimo nel settore a livello mondiale, e con il 55 percento della produzione fuori dal paese, e i conglomerati alimentari Friboi e Marfrig.

Friboi è al primo posto nell’elenco delle 60 maggiori multilatine su América Economía, rivista pubblicata in Cile, e Marfig ha appena acquisito la statunitense Keystone Foods Intermediate, che rifornisce di carne la catena multinazionale di fast-food McDonald’s.

Il libro parla anche di casi “emergenti” come la cilena Concha y Toro, maggior esportatrice di vini in America Latina, con vendite in 115 paesi, che ha appena comprato un’impresa Usa per 200 milioni di dollari, e la società di servizi di tecnologia dell’informazione Politec.

La situazione economica dei proprietari di queste multilatine viene riportato nell’elenco annuale della rivista Forbes delle persone più ricche del mondo. Nel 2011, il messicano Carlos Slim, proprietario del gruppo América Móvil, si è mantenuto in testa alla classifica.

Nel 2010, nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi figuravano ben 34 latinoamericani. Quest’anno, il numero è salito a 51 imprenditori della regione, con patrimoni di almeno un miliardo di dollari. La fortuna di Carlos Slim registra cifre ancora più alte, aggirandosi intorno ai 74 miliardi di dollari. © IPS