MEDIO ORIENTE: Lo tsunami contro Israele è "dietro l’angolo"

GERUSALEMME, 13 settembre 2011 (IPS) – Appena pochi passi separavano una vendicativa folla di manifestanti dalle sei guardie appostate davanti all'ambasciata israeliana del Cairo. Il responsabile della sicurezza Yonatan parlava al telefono dalla postazione assediata; dall'altro lato della cornetta, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu.

Il primo ministro ha promesso che “Israele farà tutto quanto è in suo potere (…) per salvarvi”. Questo il suo personale, sobrio, resoconto della serata di sabato scorso, durante il discorso televisivo alla nazione, poche ore dopo che il “rischio di linciaggio” era stato sventato.

Era lampante l’aspetto simbolico della situazione: al Cairo, sei addetti israeliani alla sicurezza bloccati in una stanza; a Gerusalemme, riuniti in fretta nella sala operativa del ministero degli Esteri, sei leader israeliani – Netanyahu, il ministro della Difesa, il ministro degli Esteri, il capo di Stato maggiore, il capo dei servizi di sicurezza interna e il capo dell’agenzia di intelligence del Mossad – tutti freneticamente impegnati, nel cuore della notte, a cercare di risolvere il problema dell'evacuazione del personale diplomatico.

Al di là delle immagini sconvolgenti, più tangibili, il presidente del Consiglio supremo delle forze armate egiziane, il maresciallo Muhammad Hussein Tantawi che presiede il governo provvisorio, era introvabile. L'ultima risorsa di Netanyahu era chiamare il presidente americano Barack Obama e chiedere il suo aiuto. Il ministro della Difesa, Ehud Barak, era al telefono con il suo omologo Leon Panetta negli Stati Uniti.

Quella notte, gli israeliani hanno dovuto fare i conti con l'impotenza dei loro uomini più influenti.

In una settimana, quasi contemporaneamente, Israele ha perso la sua alleanza strategica con la Turchia a nord e ha quasi perso l’alleanza strategicamente pacifica con l'Egitto a sud. I diplomatici israeliani sono stati espulsi dalle due capitali.

Con una differenza importante però.

Ad Ankara, l'espulsione dell'ambasciatore israeliano è stata decisa dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan, che da tempo mostra la sua indignazione per l'assalto dello scorso anno, mal riuscito, contro una nave turca da parte di un commando israeliano che tentava di violare il blocco navale imposto a Gaza, nel quale sono rimasti uccisi nove cittadini turchi.

Al Cairo, il risentimento popolare, amplificato dal movimento turco, ha fatto irruzione nell'edificio dell'ambasciata israeliana portando “a un passo” dalla rottura dei legami con Israele. La rabbia è stata innescata dall'uccisione il 18 agosto, anche se avvenuta per errore, di cinque soldati egiziani da parte delle forze israeliane impegnate nell’inseguimento di guerriglieri palestinesi di Gaza che erano entrati in Israele attraverso l'Egitto e avevano ucciso otto civili.

Alla fine, un commando egiziano inviato all'ambasciata è riuscito a mettere in salvo le guardie israeliane. Il Cairo ha ribadito pubblicamente il proprio impegno a rispettare tutti gli accordi firmati con Israele. Ankara, dall’altra parte, ha annunciato la fine della maggior parte degli accordi ufficiali, militari ed economici.

Il ministro della Difesa Ehud Barak ha pubblicamente espresso il proprio rammarico e ha promesso di collaborare con l'Egitto nelle indagini della schermaglia al confine. Netanyahu ha rifiutato di scusarsi con la Turchia per la sua cattiva gestione nella questione della “nave pacifista” del 2010.

Turchia e Israele stanno velocemente scivolando verso l’”occhio per occhio”. La scorsa settimana, Erdogan ha minacciato di inviare le navi della marina per scortare eventuali carichi di aiuti umanitari a Gaza. La replica di Netanyahu è arrivata il giorno stesso, durante una visita a una base navale israeliana: “Di fronte a fratelli armati che hanno impedito fisicamente la violazione del blocco navale – vi dico con voce chiara e forte: la giustezza del nostro percorso è l'assetto strategico dello Stato di Israele”.

E, in risposta al supporto turco ad Hamas, il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman dall'ala di ultra-destra del partito Israel Beitenu, ha minacciato di offrire aiuto ai guerriglieri curdi del Pkk.

Questo ha portato alcuni analisti israeliani a credere che Israele sia ancora sommerso dallo “tsunami diplomatico” annunciato qualche mese fa da Barak in considerazione del 20 settembre, quando il presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas presenterà ufficialmente il riconoscimento dello Stato palestinese alle Nazioni Unite.

In un editoriale intitolato “Le crisi con la Turchia e l'Egitto segnano uno tsunami politico per Israele” di Aluf Benn, redattore capo del quotidiano Haaretz, ha concluso realisticamente: “Le posizioni politiche e strategiche di Israele sono di gran lunga peggiori sotto il governo Netanyahu”.

Ciò che Netanyahu ha detto nel suo discorso del fine settimana è semplicemente scontato. “Il Medio Oriente sta vivendo un terremoto politico di proporzioni storiche”, è stata questa valutazione che ha portato il commentatore politico Ari Shavit a chiedersi retoricamente anche su Haaretz: “La settimana scorsa abbiamo perso Turchia ed Egitto. Chissà cosa perderemo la prossima settimana?”.

La ricetta che Netanyahu sembra avere in serbo potrebbe sembrare piuttosto inquietante. Il discorso ufficiale era volto più a fronteggiare il rapido corso degli eventi, che ad accennare ad una qualsiasi iniziativa politica, specialmente nei confronti della questione palestinese. La sua dichiarazione nel fine settimana era piena di emozioni passive.

Fatalismo: “Non abbiamo scelto questa serie di eventi”; allarmismo: “Ci sono molte forze esterne e potenti a lavoro”; mesta intimazione rivolta a coloro che pretendono che Israele assecondi la richiesta turca di scuse: “Noi, in Israele, abbiamo la tendenza a pensare che ogni cosa accade per colpa nostra o che noi siamo in qualche modo responsabili dei disordini nella nostra zona”.

E, sulla linea di fondo – il grande equalizzatore della politica interna – la parola che comincia per “S”: “Più di ogni altra cosa, dobbiamo, in questi tempi, agire per salvaguardare la nostra Sicurezza” e, due giorni prima alla base navale: “In questo tempo di incertezza e instabilità, dobbiamo irrobustire la nostra forza”.

La ridondanza e la banalità – “irrobustire la forza” “affrontare le avversità” – non sembravano lenire il senso generale di insicurezza, piuttosto sembravano eludere le responsabilità, incapacità al timone, la professione di fede di un leader impressionato dalle decisioni del destino.

Le dichiarazioni di Netanyahu contengono formule come: “Vorrei esprimere la mia gratitudine per …”, “vorrei anche citare l'intervento di …”, “Ho quindi anche apprezzato le parole di …”, “Vorrei ringraziare ancora una volta il …” o anche “Grazie a Dio” – molti ringraziamenti, ma difficilmente il tipo di protezione di cui Israele avrà bisogno, per parafrasare le sue parole, sarà “dietro l'angolo” considerando il disprezzo internazionale e la rabbia che innescherà il riconoscimento Onu della Palestina occupata. © IPS