Fukushima, mon amour. Gli scienziati giapponesi ai piedi del "mostro"

FUKUSHIMA, 14 aprile 2011 (IPS) – Ho deciso di visitare Fukushima, l’area del Giappone più colpita dal tragico terremoto e dallo tsunami dell’11 marzo, un pomeriggio di qualche giorno fa, dopo una lunga riunione avuta con alcuni scienziati.

Suvendrini Kakuchi/IPS Suvendrini Kakuchi/IPS

Suvendrini Kakuchi/IPS
Suvendrini Kakuchi/IPS

Mi hanno invitato ad accompagnarli in una missione privata di raccolta dati e non ho saputo resistere. Gli scienziati e ingegneri riuniti quel giorno esprimono da decenni forti dubbi sui piani di sicurezza dei reattori giapponesi, e sono protagonisti dell’attuale dibattito sul futuro dell’energia nucleare in Giappone.

“È urgente installare una rete di monitoraggio delle radiazioni in tempo reale nelle aree colpite dall’incidente della centrale di Fukushima Daiichi”, ha detto Atsuto Suzuki, responsabile della divisione investigativa dell’acceleratore di particelle ad alta energia dell’Università di Tsukuba. “È qui che le nostre competenze possono essere utili”.

Siamo partiti alla sei di mattina, armati di bottiglie di acqua minerale, indumenti che potevano essere gettati via prima del nostro ritorno a Tokyo e speciali maschere per proteggerci dalle radiazioni nella fascia di sicurezza stabilita dal governo di 20 chilometri, poi ampliata a 30, che delimita il reattore danneggiato.

Abbiamo appesi al collo dei contatori per la radioattività, oggetti simili a grandi termometri che servono per misurare la dose di radiazioni assorbita dal corpo. Dovevo controllarli continuamente per registrare quanti microsievert di contaminazione accumulava l’organismo e il luogo preciso in cui ci si trovava in quel momento.

“La nostra documentazione del materiale radioattivo è fondamentale per capire l’incidente di Fukushima” ha spiegato Yoichi Tao, uno fisico in pensione, esperto in gestione del rischio e laureato all’Università di Tokyo.

Tao non fa parte dell’élite di esperti che hanno guidato l’ambiziosa industria nucleare giapponese del dopoguerra; ha invece vissuto l’esperienza della bomba su Hiroshima all’età di appena sei anni, ricordando l’amara verità che il paese ha deciso di ignorare fino ad oggi: che la sicurezza delle centrali nucleari non è che un “mito”.

La devastazione

Uno scenario angosciante ci attende a Iwaki, il nostro punto d’accesso per la prefettura di Fukushima. Quella che un tempo era una vivace cittadina di pescatori ha subito i danni peggiori dello tsunami, che si è abbattuto lungo la costa con onde alte fino a 14 metri.

Ci siamo fermati nel villaggio di Yotsukura, dove cinquanta dei suoi 1.000 abitanti sono stati vittime della tragedia, sono scomparsi o hanno perso la loro casa, le loro barche e le automobili.

La gente si aggirava fra le macerie col viso coperto da una maschera, in cerca di qualcosa da ricostruire. “La popolazione è ancora ospitata nei diversi rifugi, perché nei negozi continua a mancare cibo e acqua, e la benzina scarseggia”, ha raccontato Yuuji Jojima, a capo delle operazioni di salvataggio del municipio locale.

Nel pomeriggio volevamo avvicinarci il più possibile al luogo del disastro. Abbiamo deciso di seguire una strada dell’interno, abbandonando la costa. Abbiamo attraversato chilometri di villaggi deserti, dove i cani e il bestiame – abbandonati dai loro padroni – vagavano tra case disabitate e strade squarciate.

Poi il cielo comincia a scurirsi. La pioggia aumenterebbe il rischio di contaminazione, perciò indossiamo le maschere e un altro strato di vestiti, e monitoriamo con attenzione i nostri contatori geiser.

Dopo aver oltrepassato il perimetro di 30 chilometri intorno alla centrale, abbiamo raggiunto Miyakoji-machi, un’area agricola che adesso non è altro che un villaggio fantasma.

All’ingresso della fascia di sicurezza, un’auto della polizia ci ha fermato, ordinandoci di spegnere la macchina. Gli agenti ci hanno spiegato, in tono gentile ma fermo, che potevano accedere solo i funzionari governativi o gli impiegati della Tokyo Electric Power Company (Tepco), l’impresa proprietaria della centrale.

Abbiamo parcheggiato l’auto cominciando a cercare un luogo adatto per collocare gli strumenti di monitoraggio dei ricercatori. Ma la pioggia si è trasformata in neve. Dentro l’auto, che era sempre più in ombra, i numeri del dosimetro hanno iniziato ad impennarsi, il mio segnava 325 microsievert, l’equivalente di una radiografia al torace.

Centri di evacuazione

L’esperienza più angosciante è stata la visita a due centri di evacuazione. A Tamura, il primo rifugio ospitava 800 persone in una grande palestra. Quello che ha distrutto le loro vite non è stato lo tsunami né il terremoto, ma il crollo della centrale nucleare, che sopportavano da 40 anni.

Gli angusti spazi destinati alle famiglie erano delimitati da scatole di cartone. Gli anziani, avvolti nelle coperte, erano stipati a un lato della recinzione.

Ho volutamente evitato di indossare le ciabatte che vengono date agli ospiti, ai quali viene chiesto di togliere le scarpe all’entrata. Mi si sono congelati i piedi quasi all’istante, un problema che gli evacuati sopportano da settimane, vivendo e dormendo in quel luogo umido e freddissimo.

Nel secondo centro, i bagni chimici si trovavano all’esterno dell’edificio, rendendo un incubo per gli anziani le escursioni notturne alla toilette. Un medico del centro ha parlato dei tantissimi pazienti in cerca di assistenza medica. “Per anni le autorità ci hanno garantito che il luogo era sicuro. Non gli crediamo più”, ha spiegato, rifiutando di essere fotografata e di dirci il suo nome.

Mentre il Giappone si batte per cercare di limitare i danni di ciò che potrebbe rivelarsi la principale catastrofe della storia, la popolazione reclama un modello alternativo per produrre energia.

L'insegnamento

Questo segna l’inizio di uno sforzo senza precedenti da parte di una rete sempre più estesa di studiosi e ingegneri giapponesi, che cercano anche la collaborazione dei colleghi europei e statunitensi – per realizzare lo studio più completo mai elaborato sulla sicurezza.

Ma per adesso, Tao e il suo team si concentrano sulla necessità di negoziare il loro accesso al cuore del controllatissimo sistema burocratico giapponese, che da sempre oppone resistenza a ogni tipo di intervento dall’esterno: uno degli aspetti più problematici dello sviluppo economico del paese, rimasto molto colpito dalla catastrofe.

Al rientro a Tokyo, Tao dice: “Le risposte hanno bisogno di tempo. Per ora la cosa importante è sostenere gli sforzi collettivi per rispondere alla tragedia, e questo riguarda tutti, difensori e detrattori dell’energia nucleare”. © l'Unità

* Articolo pubblicato da l'Unità il 13 aprile 2011