EDITORIALE: Haiti un anno dopo. "Amici stranieri, lasciateci soli"

PORT-AU-PRINCE, 12 gennaio 2011 (IPS) – Dodici gennaio, un anno dopo il terremoto. Haiti non aveva mai visto tante vittime in un’unica catastrofe e in così poco tempo. E gli haitiani non avevano mai visto tanta solidarietà, né ricevuto così tanta attenzione dal mondo e dalla comunità internazionale.

Bambini in un accampamento di sfollati per il terremoto Foto Onu/Logan Abassi

Bambini in un accampamento di sfollati per il terremoto
Foto Onu/Logan Abassi

Talmente tanta che non hanno nemmeno avuto il tempo di piangere i propri morti, a parte qualche rara eccezione. Non abbiamo potuto piangere i nostri morti, perché erano troppi; perché molti erano ancora sepolti sotto le macerie; perché c’era troppa gente intorno a noi; perché c’erano troppe vittime, e troppi già condannati a morte. Non esiste dilemma più grande: piangere i morti, o coloro che sono destinati a morire presto.

Non abbiamo pianto i nostri morti come sarebbe stato giusto, e di questo non andiamo fieri. Né proviamo alcuna consolazione. Non ci piace piangere in pubblico, soprattutto davanti agli stranieri, e ci metteva a disagio l’idea di piangere mentre il mondo intero ci guardava. Perché il mondo intero era venuto per aiutarci, e per vederci piangere. Spettatori involontari, ma comunque spettatori. Nonostante le apparenze, non ci piace dare spettacolo di noi stessi. C’è chi lo fa tutto il tempo, ma questo non significa che gli haitiani non siano riluttanti a mostrare le proprie emozioni in pubblico.

Così, questa massiccia e forte presenza di amici stranieri giunti qui in nostro aiuto è diventato un grosso peso. In troppi sono venuti, e non se ne sono più andati. Sono arrivati con tanti buoni propositi, troppe risorse, troppe promesse. A prendere troppe decisioni. Sono arrivati portando grande preparazione, ma scarso know-how. Così tante persone ci hanno abbracciato, che ne siamo rimasti storditi. Come è possibile? Il calore del loro abbraccio ci sta quasi soffocando. Se ne rendono conto?

Prevedibilmente, oggi 12 gennaio 2011 diverse organizzazioni attive ad Haiti tenteranno di usare l’anniversario del terremoto per aumentare la loro visibilità di fronte agli haitiani e convincere i loro finanziatori dell’importanza delle attività che hanno realizzato sull’isola nell’ultimo anno. Sottolineeranno anche la necessità che il loro contributo continui negli anni a venire.

Nonostante la ricostruzione così poco tangibile e visibile, l’assenza di alloggi per i milioni di senzatetto e gli scarsi progressi nella rimozione delle macerie, queste organizzazioni, insieme certamente ad alcune autorità locali, sono già pronte a presentare i loro piani su questa parte dell’isola.

Alcuni ripeteranno per l’ennesima volta che Haiti sta ricevendo più aiuti di qualunque altro paese, dopo l’Afghanistan. E continueranno a sottolineare l’importanza del loro sostegno al popolo haitiano, utilizzando cifre nuove o riciclate.

Alcune Ong hanno messo nell’agenda anche la lotta contro il colera, nonostante il disappunto per il diffondersi dell’epidemia in aree che non avevano previsto. L’ipotesi era che il colera sarebbe comparso prima negli accampamenti, per poi diffondersi nel paese. E in effetti diverse organizzazioni avevano già dato notizia dello scoppio dell’epidemia nelle tendopoli, invece è successo il contrario.

Il primo focolaio di colera è scoppiato nel dipartimento di Artibonite, non negli accampamenti dei sopravvissuti, e da lì si è diffuso inesorabilmente nel resto del paese. La missione Onu Minustah dovrebbe accettare le conseguenze delle conclusioni scientifiche sull’origine di questo flagello ad Haiti. Finora, questo non è accaduto. È comprensibile che le organizzazioni che lavorano da un anno ad Haiti scelgano l’anniversario del terremoto per parlare delle loro attività, e persino per farsi pubblicità. Vorrei solo chiedere loro di non organizzare commemorazioni pubbliche, celebrazioni o inaugurazioni di nessun tipo in quella giornata. Che lo facciano in qualsiasi altro giorno di gennaio, ma non oggi. Lasciate questo giorno agli haitiani, per ricordare finalmente, da soli, i nostri morti.

Chiedo agli amici stranieri di darci almeno un giorno, solo un giorno. Lasciateci soli il 12 gennaio 2011, e il 12 gennaio degli anni a venire. Lo ribadisco: chiedo solo un giorno ogni anno, dal 2011 in poi, per piangere i nostri morti, ricordarli, per riflettere su quello che ci è accaduto, e su come e perché siamo arrivati al punto in cui siamo oggi. Dobbiamo ritrovare la pace in quel giorno, soli con noi stessi.

Spero che i nostri amici stranieri capiscano, e che le ambasciate capiscano, che le agenzie multilaterali e bilaterali capiscano, che le Ong capiscano, che Minustah, Onu, Osa, Caricom, e tutti gli “amici di Haiti” capiscano. Abbiamo bisogno di restare soli, di ritrovare noi stessi. Alcuni haitiani mi hanno persino detto di provare una certa nostalgia per i tempi in cui eravamo soli. Le cose non andavano tanto bene, è vero, ma non vanno tanto bene nemmeno oggi, che non siamo soli. Vorremmo tenere il 12 gennaio per noi. Si può dire che sia l’unico atto di sovranità che siamo in grado di fare adesso.

Conto anche sul fatto che Bill Clinton e la sua squadra capiscano, e che P.J. Patterson capisca. Auguri per il 2011. © L'Unità

* Ericq Pierre è un economista e agronomo haitiano che lavora per la Banca interamericana di sviluppo.

** Articolo pubblicato su l'Unità il 12 gennaio 2011.