INTERVISTA: ‘Questa volta non ci sarà un’Arca di Noè’

CITTÀ DEL MESSICO, 3 gennaio 2011 (IPS) – “Il mercato non risolverà la crisi ambientale”, sostiene il teologo ed ecologista Leonardo Boff, professore presso l’Università brasiliana dello Stato di Rio de Janeiro. La soluzione, insiste, è nell’etica, e nella battaglia dei popoli originari per cambiare la relazione dell’uomo con la natura.

Daniela Pastrana/IPS Daniela Pastrana/IPS

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Boff, che insegna etica, filosofia della religione ed ecologia, è uno dei principali rappresentanti della Teologia della Liberazione, corrente progressista della Chiesa cattolica in America Latina. Ha scritto più di 60 libri e ha dedicato gli ultimi 20 anni a promuovere il movimento verde.

È stato uno dei 23 promotori della Carta della Terra nel 2000 e, un anno dopo, ha ricevuto il Right Livelihood Award, noto anche come “premio Nobel alternativo”, che viene concesso a personalità di rilievo nella ricerca di soluzioni ai problemi globali più pressanti.

“Se non cambiamo, andremo incontro al peggio… O ci salviamo o moriremo tutti”, ha detto Boff in un’intervista concessa a Tierramérica nella capitale messicana, dopo aver assistito come osservatore alla 16esima Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (COP16) celebrata lo scorso dicembre a Cancún.

D: Qual è il suo giudizio sulla COP16?

LEONARDO BOFF: Ha prevalso, tranne negli ultimi due giorni, un clima di delusione, di fallimento. Ma ci sono stati incredibilmente tre punti di convergenza: l’impegno a lottare per non arrivare a un aumento di due gradi della temperatura globale; la creazione del Fondo Climatico Verde, di 30 miliardi di dollari (per il 2012), per aiutare i paesi più vulnerabili, un segnale di solidarietà interessante; e la creazione di un grande fondo per la riduzione della deforestazione e il degrado delle foreste, perché qui sta la causa principale del riscaldamento globale.

D: Come dobbiamo interpretare la posizione della Bolivia, l’unico paese che non ha accettato questi impegni?

R: La Bolivia parte dal presupposto che la Terra è Pachamama, un organismo vivente che bisogna rispettare e di cui prendersi cura, e non solo sfruttare. È una visione che va contro quella prevalente, che si inquadra nell’ambito economico: vendere crediti di carbonio, per esempio, significa avere il diritto di inquinare.

Le società dominanti vedono la Terra come un deposito di risorse che si possono sfruttare all’infinito; invece adesso bisogna preoccuparsi della loro sostenibilità, perché cominciano a scarseggiare. (Queste società) non riconoscono dignità e diritti agli esseri della natura, li considerano solo mezzi di produzione e la loro relazione è di pura utilità. Questi sono temi che non entrano a Cancún né in nessuna conferenza COP.

D: Perché se ne dovrebbe parlare?

R: Perché il sistema che ha creato il problema non ci tirerà fuori dalle difficoltà. Se ogni paese deve crescere un po’ di più ogni anno e facendolo deteriora la natura e aumenta il riscaldamento (globale), allora è un sistema ostile alla vita.

D: L’argomento è che la crescita è necessaria per lo sviluppo…

R: Cosa significa crescere? Sfruttare la natura? È proprio questo tipo di crescita e di sviluppo che può portarci nell’abisso, perché gli esseri umani stanno consumando il 30 per cento in più di quello che la Terra riesce a ricostituire. È un circolo vizioso. La Cina non può inquinare il 30 per cento, come fa, perché l’inquinamento non rimane in Cina, ma entra nel sistema globale.

Il problema è la relazione dell’essere umano con la Terra, perché è violenta, a pugni stretti… Se non cambiamo questo sistema, andremo incontro al peggio. E questa volta non ci sarà un’Arca di Noè. O ci salviamo o moriremo tutti.

D: La situazione è tanto grave?

R: Ci sono regioni nel mondo che sono cambiate a tal punto da diventare inabitabili. Per questo ci sono 60 milioni di sfollati in Africa e nel sud-est asiatico, che sono i più colpiti ma anche quelli che inquinano meno. Se non fermiamo questa tendenza, nei prossimi cinque, sette anni ci saranno 100 milioni di rifugiati climatici, e questo creerà un problema politico.

D: Qual è il ruolo dell’America Latina?

R: È il continente con più probabilità di contribuire in modo positivo alla crisi ambientale: ha le principali foreste umide e riserve di acqua, la maggiore biodiversità e forse le aree più estese per l’agricoltura.

Ma la coscienza ambientale, in gran parte della popolazione del continente, è ancora insufficiente. E, d’altra parte, si assiste ad una pericolosa invasione delle grandi imprese che si stanno appropriando di vaste regioni. È un’appropriazione di beni comuni in funzione di benefici privati.

In Argentina, Brasile, Cile, Venezuela, si stanno rendendo conto a poco a poco del nuovo gioco del capitale: una grande concentrazione di mezzi vitali per garantire il futuro del sistema.

D: Quali sono le alternative?

R: Abbiamo fondi e tecnologie, ma ci manca la volontà politica e la sensibilità nei confronti della natura e dell’umanità sofferente. È questo che bisogna riscattare. E insieme all’etica della cura, serve l’etica della cooperazione. Adesso si impone la cooperazione di tutti con tutti.

D: È possibile? Cosa bisogna fare?

R: Ci sono dei movimenti, soprattutto nei gruppi che vedono le loro terre divise, come La Vía Campesina e i Sem Terra in Brasile, e i popoli indigeni, che non vedono la Terra solo come uno strumento di produzione, ma come l’estensione di un corpo, e ne hanno bisogno per garantire la loro identità.

Stiamo cercando l’equilibrio e questo è un compito collettivo degli esseri umani, che il mercato e l’economia non risolveranno. Ognuno deve fare la sua parte, essere di più con meno, avere un senso della giusta misura. Non è un problema di denaro. © IPS