Il mercato del cotone: quali opportunità per i Paesi africani?

Equilibri.net, 28 ottobre 2010 (IPS) – L'aumento del prezzo del cotone sul mercato internazionale rappresenta un' opportunità per i Paesi africani produttori dell'oro bianco. Da sempre scalzati dalla supremazia statunitense e asiatica, gli Stati dell'Africa hanno la possibilità di crescere e di conquistare una posizione importante nel mercato della fibra più utilizzata al mondo.

Il mercato africano del cotone nello scenario internazionale attuale

Il mercato internazionale del cotone si trova in un momento topico: le quotazioni dell'oro bianco, infatti, sono ormai al rialzo da settimane ed hanno superato il dollaro per libbra, il massimo dall'ottobre '95, con un aumento del 52,8% in un anno (per quanto riguarda la prima scadenza contrattuale future). L'impennata del prezzo del cotone non è dovuta solo ad interventi speculativi, ma è legata anche al contesto produttivo.

La materia prima agricola più commerciata al mondo, infatti, è fortemente volatile e dipende, nella definizione del prezzo, da diversi fattori costitutivi del mercato. Primo tra tutti, naturalmente, il rapporto domanda/offerta mondiale. Al momento, le scorte di cotone sono scarse e non riescono a soddisfare la richiesta. I mercati devono fare i conti con il depauperamento delle scorte cinesi, con le devastanti inondazioni sulle piantagioni del Pakistan (la produzione scenderà di circa il 15% in questo Paese) con l'eccesso di piogge monsoniche in India. I prezzi del cotone diventano, quindi, remunerativi e gli agricoltori sono incoraggiati a dedicare al prodotto una maggior quantità di risorse, tanto in termini di lavoro che di terra coltivabile.

Intanto, però, sono soprattutto i Paesi asiatici a trovarsi in emergenza. I grandi consumatori ed importatori dell'oro bianco – Cina, India, Pakistan – corrono ai ripari per far lavorare le numerose imprese tessili. É Pechino ad assorbire la maggior parte del mercato cotoniero: la Cina consuma quasi il 40% del cotone mondiale e si appresta ad utilizzare circa 400 000 tonnellate di materia prima attingendo alle proprie scorte, sperando, inoltre, di contribuire ad una limitazione dei prezzi. Le associazioni tessili indiane premono affinché l'export del Paese sia frenato e le aziende pakistane temono di dover acquistare la fibra per non fermare i telai. La prospettiva futura globale non è incoraggiante: le scorte potrebbero diminuire da 10,23 milioni di tonnellate a 9,9 milioni per la fine del 2010-2011. In questo scenario sono soprattutto i produttori statunitensi, da sempre primi nel mercato cotoniero di esportazione, a trovarsi in una situazione favorevole.

E l'Africa? Nonostante non sia il più importante esportatore di cotone nel mercato mondiale, il continente punta molto sulla produzione cotonifera, che contribuisce con i suoi introiti ed attività collegate alla formazione di buona parte del prodotto interno lordo. L'oro bianco,infatti, è la fonte primaria delle esportazioni per molti Paesi dell'Africa occidentale e centrale. Il settore cotoniero è cruciale per la riduzione della povertà rurale e le attività ad esso legate impiegano circa 6 milioni di africani.

La volatilità del mercato cotonifero e la tendenza al ribasso dei prezzi ha sempre avuto conseguenze dirette e piuttosto pesanti soprattutto sui produttori più deboli, quali quelli africani: questi ultimi sono spesso privi di adeguato supporto infrastrutturale, know-how e incentivi statali, subendo così le storture del libero mercato. L'andamento attuale dell'oro bianco, con i suoi picchi al rialzo, dovrebbe quindi risollevare i produttori africani, avvantaggiandoli in una situazione di carenza dell'offerta.

Dopo un periodo piuttosto negativo e di scarsa considerazione per il mercato cotonifero dell'Africa, alcuni produttori si erano rivolti ad altre colture, quali il mais e la colza, sperando in migliori profitti. Oggi, invece, la produzione dell'oro bianco ha ripreso fiducia.

Anche l'Africa, quindi, cerca di giocare le sue carte. Il paradosso per i produttori locali è che essi non riusciranno ad approfittare completamente dell'impennata dei prezzi. Nel timore di perdere anche la minima possibilità di guadagno nel mercato internazionale della fibra, gran parte del cotone africano in fase di coltivazione è stato già venduto al prezzo di 750 franchi CFA al chilo, un valore assolutamente svantaggioso se paragonato ai 1000 franchi CFA raggiunti in questo momento. L'Africa, quindi, dovrà essere abile e negoziare in modo più favorevole il prezzo della prossima raccolta: l'intera filiera potrebbe rinascere.

Nel frattempo, sono gli Stati Uniti, leader indiscussi nel mercato mondiale nell'esportazione del cotone, ad essersi assicurati la posizione più favorevole. Contando su circa 25 000 agricoltori nel settore, ben supportati da una politica nazionale di incentivi, il dipartimento americano dell'agricoltura ha annunciato che per la campagna 2010-2011 il raccolto aumenterà fino a 116, 8 milioni di balle.

L'ottimismo statunitense, però, dovrà fare i conti con la precarietà del mercato cotoniero, oggi in difficoltà dinanzi ad un aumento di domanda non supportata da un'offerta adeguata, e con l'assottigliamento delle scorte nazionali già in atto. L'Africa, quindi, può conquistare la sua nicchia di mercato. Le opportunità ci sono: occorrerà lavorare per superare le deficienze di un settore con importanti potenzialità.

L'ascesa del mercato africano del cotone e la sua struttura

Le origini dell'intreccio tra cotone ed Africa risalgono al periodo coloniale. Infatti, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, il prezzo mondiale del cotone comincia a raddoppiare, spinto dagli effetti congiunti del rapido sviluppo dell'industria tessile in Europa, dalle rivolte degli indiani che lavoravano nelle Indie Orientali, dall'ondata di protezionismo che investe i mercati europei tra il 1870 e il 1880.

La guerra civile americana, inoltre, priva il mercato della maggiore riserva di fibra. Pressati dalle lobbies industriali tessili, i governi europei si rivolgono alle loro colonie africane. La Gran Bretagna è la più attiva: Paesi quali Gambia, Sierra Leone, Sudan e Nigeria diventano punti di riferimento per la produzione cotoniera. Anche la Francia comincia a sfruttare i territori africani, concentrandosi in Senegal. Fino alla metà del novecento e oltre l'area francofona del Camerun, Ciad, Repubblica Centrafricana costituisce il maggior bacino produttivo di cotone, fornendo il 42% delle piantagioni dell'Africa occidentale contro il 38% della zona nigeriana.

I Paesi occidentali del continente acquistano primaria importanza nel settore solo dopo l'indipendenza, grazie a politiche statali mirate e supportate dagli interessi delle floride industrie tessili degli ex colonizzatori.

L'Africa diventa, quindi, una terra importante per il commercio del cotone. Le aree destinate alla produzione dell'oro bianco quadruplicano, da 800 000 a 3 milioni di ettari e la quantità prodotta passa da 400 kg per ettaro e 1 tonnellata.

Attualmente, il bacino dell'Africa occidentale è il più prolifico per la produzione del cotone: Paesi quali il Mali, il Burkina Faso, la Costa d'Avorio ed il Benin giocano un ruolo di spicco nel settore. In quanto area geografica, infatti, grazie anche alla concentrazione di terreno adatto e ad un clima umido favorevole alla crescita della fibra naturale, l'Africa dell'Ovest si colloca al secondo posto delle esportazioni mondiali dopo gli Stati Uniti. Il cotone esportato da questa regione ammonta ad un valore di circa un miliardo di dollari. L'80% della produzione è destinato all'area asiatica, soprattutto ai mercati cinesi (36%), indonesiani (21%) e tailandesi (10%), mentre solo il 18% è rivolto ai mercati africani.

Il settore cotonifero africano si è trasformato negli anni, grazie al processo di liberalizzazione che ha coinvolto ormai tutti i Paesi. Da una situazione di monopolio, dove una singola azienda statale controllava sia i servizi di assistenza tecnica e di fornitura degli input agli agricoltori, sia l'acquisto e commercializzazione del cotone raccolto, si è passati all'affermazione di operatori esterni e privati. Con la riforma del sistema, quindi, l'approvvigionamento degli input è delegato ad associazioni di produttori, ad unioni contadine e a commercianti privati. Il più grande svantaggio di questo cambiamento è proprio la mancanza di credibilità degli attori privati dinanzi alle istituzioni finanziarie. La liberalizzazione del settore in Africa non è stato omogenea e tuttora presenta caratteristiche diverse.

Nella maggior parte dei casi l'organizzazione del mercato è ibrida e lo Stato conserva un ruolo importante. In Ghana, per esempio, le attività relative alla produzione e al marketing sono state completamente privatizzate e lo stato si limita a controllare la certificazione delle piante e a mantenere accessibili le strade rurali. Così accade in Nigeria, dove le autorità pubbliche intervengono nella ricerca, nella certificazione, nella scorta di piantine e nei sussidi per i fertilizzanti.

In altri Paesi le compagnie statali ancora esistenti si occupano soltanto della sgranatura del cotone, come in Benin e in Togo, dove, però, l'industria della lavorazione del cotone si è aperta anche a tre imprese private. In alcuni casi, invece, la struttura pubblica è stata completamente eliminata e rimpiazzata. In Guinea, la “Nuovelle compagnie cotonnière de Guinée” si basa su partecipazioni finanziarie private e dei produttori. Altri Paesi, tra i quali il Burkina Faso, hanno avviato una liberalizzazione di tutto il settore, per cui ogni azienda è responsabile delle fasi di produzione, trasformazione, marketing della fibra.

Le politiche nazionali adottate per modernizzare il settore cotoniero sono, dunque, differenti. La cooperazione tra Stati diversi ma appartenenti allo stesso bacino produttivo sarebbe auspicabile. Si potrebbero, così, armonizzare le strategie ed i metodi di intervento nella filiera, riducendo i costi degli input, della raccolta, della fase di sgranatura e del trasporto verso i porti per la spedizione.

Gli impatti positivi della liberalizzazione sono stati diversi: su tutti, l'afflusso di capitali privati e una maggiore vivacità produttiva. Proprio la struttura produttiva africana, però, deve confrontarsi con una serie di sfide: il mantenimento degli standard di qualità; il raggiungimento di un sistema efficiente di fornitura degli input ai piccoli produttori; l'attuazione di un effettivo meccanismo di messa a disposizione di credito agricolo; il supporto alla ricerca per migliorare le varietà delle sementi.

Mantenere alta la produttività, inoltre, è essenziale per un mercato, come quello africano, fortemente dipendente dall'oscillazione dei prezzi, dove l'aumento di produzione dipende in primo luogo dall'espansione delle aree coltivate, piuttosto che da investimenti in macchinari e infrastrutture.

Lo sfruttamento della terra disponibile non può però diventare una misura di prosperità e di efficienza nel mercato del cotone. Innanzitutto per una motivo di sicurezza alimentare: dedicare la maggior parte del suolo alla coltura del cotone, spesso l'unica piantagione redditizia per alcuni i Paesi africani, riduce la possibilità di diversificare l'agricoltura, di dedicarsi all'allevamento e, quindi, di provvedere alla propria sussistenza.

Inoltre, a fronte del crescente fenomeno del “land grab”, ovvero dell'acquisto o affitto di terra da parte di investitori stranieri per colture nuove, quali i biocarburanti, l'Africa ha necessità di puntare sulla qualità e sulla modernità delle proprie piantagioni, compreso il cotone, piuttosto che sulla quantità. La scarsità e l'erosione delle terre disponibili, infatti, non è un problema da trascurare. In Benin, dove la fibra naturale rappresenta una risorsa chiave per l'economia locale, il problema del danneggiamento del suolo è già evidente. L'uso più intensivo di pesticidi sta erodendo la terra, distruggendo i suoi nutrienti. In più, con lo scopo di ottenere una fibra forte, spesso i coltivatori tagliano gli alberi in prossimità dei terreni per favorire il raggiungimento dei raggi solari, contribuendo alla graduale deforestazione dell'ecosistema. É interessante notare, inoltre, che il cotone africano resta fondamentalmente una risorsa agricola, in quanto l'industria tessile locale non è abbastanza sviluppata. Il cotone è coltivato spesso in campi a gestione familiare, che possono contare su poche risorse e guadagni inferiori rispetto ai Paesi sviluppati. Il cotone dell'Africa occidentale, quindi, non è sfruttato in tutte le sue potenzialità poiché la maggior parte della fibra prodotta viene esportata senza essere prima trasformata. L'industria tessile africana, infatti, non ha mai avuto un grande sviluppo e attualmente la situazione è ancora più critica. La Nigeria, per esempio, poteva contare su circa 100 aziende nel 1999: ad oggi meno della metà sono ancora attive.

L'artigianato tessile, invece, gioca un ruolo importante nell'economia dell'Africa occidentale. Dopo l'agricoltura, infatti, è il settore che impiega più lavoratori. Gli operatori del tessile rappresentano il 70% degli artigiani in Mali, il 50% in Burkina Faso e il 40% in Ghana.

È evidente, però, che gli sforzi per lanciare la trasformazione manifatturiera del cotone africano, compiuti anche attraverso l'accordo AGOA (African Growth Opportunity Act – in vigore tra Stati Uniti e diversi Paesi del continente con lo scopo di facilitare l'export di alcuni prodotti africani sul mercato americano, grazie a tariffe all'entrata agevolate) e l'implementazione di una strategia regionale per sviluppare la catena tessile trai i Paesi del “West African Economic and Monetary Union” non hanno avuto risultati positivi. Inoltre, la fine degli “ATC Agreements”(Agreements on Textile and Clothing – finalizzati ad integrare il commercio tessile nel sistema GATT, facilitando la rimozione delle restrizioni alle importazioni) e la completa liberalizzazione del settore tessile mondiale ha favorito Paesi come Cina ed India, molto competitivi nel mercato globale. L'Africa è rimasta nuovamente indietro, pagando soprattutto la mancanza di una politica regionale integrata.

Il cotone africano: punti di forza e carenze

Nel mercato internazionale, il cotone degli altopiani africani si confronta con la competizione globale su tre livelli. Innanzitutto il cotone africano, come quello proveniente dalle altre piantagioni nel mondo, deve competere con l'espandersi delle fibre sintetiche. Esso deve inoltre misurarsi sia con la fibra raccolta e lavorata a macchina proveniente dagli Stati Uniti, dall'Australia, dal Brasile, sia con il cotone indiano ed uzbeko, anch'esso raccolto a mano. In ultimo, l'Africa è in competizione con se stessa, considerando la molteplicità dei mercati cotonieri del continente.

Dinanzi a queste difficili sfide, il settore africano può contare su alcuni punti di forza. L'Africa, infatti, gode di un vantaggio naturale per la crescita della fibra, in quanto pianta tropicale. Il cotone africano, conosciuto come “upland cotton” (cotone degli altopiani) cresce soprattutto in aziende agricole di piccola scala ed è alimentato principalmente dalle piogge. La produzione si basa sull'alto impiego di manodopera e sull'utilizzo di strumenti manuali. I semi di cotone sono raccolti a mano e lavorati, nella fase della sgranatura, per lo più con il sistema a sega (“saw ginning”). A livello nazionale, nonostante i piccoli agricoltori non si avvalgano solitamente di sistemi di irrigazione, la fibra è omogenea nelle sue intrinseche caratteristiche. Le proprietà del cotone dell'Africa sono classificate di medio livello, secondo i parametri di “Cotlook A Index”, il riferimento per i prezzi internazionali della fibra.

Non sempre, però, il cotone africano soddisfa le specifiche qualità necessarie per la produzione dei tessuti più fini. I progressi nell'industria locale della filatura sono stati piuttosto lenti rispetto a quelli di Paesi produttori come l'Australia, il Brasile e l'India, ormai in ascesa nel settore. Questo è dovuto principalmente al fatto che il vantaggio competitivo del cotone africano viene dalla sua raccolta a mano. I semi raccolti manualmente sono più puri, puliti e la fibra ottenuta ha meno difetti rispetto a quella colta con un sistema meccanico.

Quindi, il filato proveniente dall'Africa dovrebbe essere acquistato nei mercati internazionali ad un prezzo più alto rispetto a quello colto artificialmente. Infatti, la maggior parte del cotone africano era venduto fino agli anni 80 ad un sovrapprezzo rispetto a quello australiano. Nel tempo, però, il vantaggio conferito alla fibra raccolta manualmente ha perso la sua valenza, a causa dell'importanza data alla contaminazione con materie esterne. La principale preoccupazione dei produttori e del controllo qualità è ormai la presenza o meno di elementi esterni nella fibra:per questo, il mercato preferisce il cotone raccolto a macchina. Quest'ultimo rappresenta più del 55% delle esportazioni mondiali. Di conseguenza il cotone africano, con le sue caratteristiche, è meno richiesto a livello internazionale.

Alcune strategie per migliorare la qualità della fibra sono state adottate di recente, dando risultati positivi in Paesi, come Zambia, Camerun e Burkina Faso. Inoltre il sistema di sgranatura a rullo, poco utilizzato in Africa, garantisce un cotone più puro rispetto a quello lavorato con il meccanismo a sega, più diffuso tra i Paesi africani, garantendo un prezzo di vendita più rimunerativo di circa 1 o 2 centesimi.

Il prezzo del cotone africano nei mercati internazionali è penalizzato anche dal modo in cui viene commerciato e spedito verso le destinazioni mondiali. Rispetto ai maggiori competitori del settore, la mancanza di omogeneità e di consistenza dell'imballaggio ha la sua importanza: spesso infatti i compratori lamentano le precarie condizioni delle balle in arrivo dall'Africa.

È interessante comunque notare che le potenzialità del cotone africano non sono da sottovalutare. Le caratteristiche delle fibre, infatti, restano ad un livello superiore secondo quanto richiesto dal Cotlook A Index. La purezza dell'oro bianco africano, dovuta alla raccolta manuale, potrebbe garantire un sovrapprezzo di circa 1-2 centesimi nell'attuale mercato internazionale. Tutto dipenderà dalla capacità degli africani di sviluppare un'affidabile reputazione per un cotone che sia incontaminato anche dai materiali esterni.

La commercializzazione del cotone africano, così come viene effettuata attualmente, mostra ancora delle carenze. Attualmente esistono due tipi di compagnie che forniscono la garza di cotone a livello mondiale. Da una parte, ci sono le aziende sgranatrici indipendenti che vendono la fibra a commercianti internazionali; dall'altra le compagnie affiliate con alcuni mercanti che provvedono alla vendita del cotone attraverso aziende “parenti”, come Dunevant, Cargill, Plexus, Dagris. Sono i commercianti di cotone internazionali a giocare un ruolo chiave nel mercato africano. Essi, infatti, comprano cotone dall'Africa per poi rivenderlo alle fabbriche cotoniere o ad altri mercanti, mettendosi al riparo dai rischi del prezzo e organizzando le spedizioni. L'oro bianco africano è per la maggior parte offerto a prezzo fisso, insensibile alle fluttuazioni del mercato, che dunque si riversano soprattutto sui produttori e sugli addetti alla sgranatura.

Inoltre, le aziende indipendenti hanno scarsa conoscenza del funzionamento del mercato cotoniero globale e ricevono informazioni al riguardo solo attraverso i commercianti. Le strategie di vendita, dove esistono, sono deboli, poco strutturate e formalizzate e, in più, gli strumenti per gestire i rischi derivanti dall'oscillazione del prezzo del cotone sono minimi.

Nello specifico, le compagnie africane per la sgranatura del cotone sono completamente esposte alla volatilità del prezzo della fibra e dei tassi di cambio. Le fluttuazioni dei cambi, infatti, creano una situazione addizionale di rischio che necessita di essere gestita dagli addetti alla sgranatura. I prezzi internazionali del cotone sono espressi in dollari, mentre i coltivatori pagano la maggior parte delle spese di produzione in moneta locale.

Migliorare la gestione del marketing è un imperativo per il settore cotoniero in Africa. Un uso più consapevole degli strumenti finanziari del mercato, quali contratti futures e options, e l'adozione di meccanismi di contrattazione che tutelino gli operatori locali sono fondamentali per garantire una giusta remunerazione.

Il cotone statunitense nel mercato globale e l'impatto sulla produzione africana

Gli Stati Uniti sono i primi esportatori di cotone a livello mondiale: il settore contribuisce a circa il 4% del PIL, purtuttavia all'interno di un contesto agricolo fortemente diversificato. Al contrario, i Paesi dell'Africa centrale ed occidentale, come il Benin, il Burkina Faso, il Mali, il Ciad, per lo più intrappolati in un sistema agricolo mono-colturale di retaggio coloniale, dipendono fortemente dalla produzione cotoniera. L'oro bianco, infatti, rappresenta una risorsa fondamentale per i Paesi produttori.

Lo svantaggio africano nel mercato mondiale del cotone, però, non è causato solo dalle carenze strutturali, dalla debole conoscenza dei mercati finanziari, dallo scarso sviluppo tecnologico. La politica statunitense di sussidio ai produttori nazionali ha, infatti, un impatto non trascurabile sulle performance africane e suscita dubbi sul rispetto dei principi del libero mercato.

La messa in discussione della politica domestica statunitense è iniziata dalla fine degli anni '90 quando il settore del cotone ha subito una drastica caduta dei prezzi. La sovrapproduzione verificatasi è stata in gran parte attribuita ai sussidi garantiti ai produttori Statunitensi. Nella stagione 2001/02 gli Stati Uniti hanno speso circa $ 3.9 miliardi per supportare la produzione cotoniera. I sussidi statali hanno garantito un prezzo minimo ai produttori, che hanno ricevuto un pagamento addizionale per ricevere un reddito fisso.

Dal 1996, da quando è in vigore il Farm Act, gli Stati Uniti hanno perseguito una politica di protezione del settore cotoniero nazionale, stimolando indirettamente una sovraproduzione che ha depresso i prezzi sul mercato internazionale. I sussidi statunitensi hanno un impatto importante sul mercato globale perché gran parte del cotone americano, più del 50%, viene esportato.

Così, il mercato africano è il primo ad essere colpito. Ben otto dei Paesi produttori dell'Africa centrale ed occidentale hanno subito perdite pari al 65% dei $ 300 milioni di potenziali ricavi mancati nell'area sub-sahariana, a causa della caduta dei prezzi nel 2001.

Il Direttore generale della compagnia statale del Senegal che opera nel settore, non ha esitato ad affermare che l'unico vantaggio comparativo per i produttori statunitensi è l'accesso ai sussidi, senza i quali non potrebbero competere a livello globale. Il cotone africano, quindi, risulta molto più competitivo, poiché possiede più qualità e ha prezzi più bassi di produzione.

Dinanzi alla distorsione dei prezzi e delle regole di libero mercato il Burkina Faso, per esempio, ha subito una perdita sulla rendita del cotone di circa $60 milioni, che ha influito direttamente sulla lotta alla povertà e alla malnutrizione.

In Benin l'impatto è stato devastante per i piccoli agricoltori, il vero motore del cotone africano. Secondo una ricerca dell'International Food Policy Research Instute, durante la crisi del 2001 la riduzione del 40% del prezzo mondiale del cotone si è riflettuta in un decremento del 21% del reddito dei produttori, provocando un aumento del tasso di povertà – parametro valutato in base all'aspettativa di vita, il livello di alfabetizzazione e il livello di reddito – dal 37% al 59%. In Paesi, come quelli africani, dove gli agricoltori rappresentano circa l'80% della popolazione , il rispetto delle regole di libero mercato diventa di vitale importanza.

É per questo che quattro Paesi produttori africani – Benin, Burkina Faso, Ciad e Mali – si sono fatti promotori di un'iniziativa di protesta nel 2003, nell'ambito delle negoziazioni nell'Organizzazione Mondiale del Commercio.

Considerando che la produzione ed il commercio del cotone sono tutelati dalle regole internazionali dell'OMC a garanzia di un mercato libero da protezionismi e sussidi, i quattro Stati hanno proposto l'eliminazione di tutti i finanziamenti statali Statunitensi in quattro anni e l'attuazione di un meccanismo di compensazione per le perdite subite. Nel corso delle negoziazioni del Doha Round non è stato ancora trovato un accordo al riguardo. Nell'ultima riunione dell'OMC, tenutasi a luglio, alle promesse di assistenza nel settore per i Paesi in via di sviluppo non è stata affiancata alcuna conclusione utile sul taglio ai sussidi. Gli Stati Uniti, naturalmente, pur dichiarando di impegnarsi per riequilibrare il mercato, non sono disposti a rivedere del tutto la politica nazionale di sostegno ai produttori. Conclusioni

La questione della produzione del cotone in Africa richiama l'attenzione su diversi aspetti economici e politici. Da una parte i Paesi africani dimostrano di non essere ancora in grado di trasformare del tutto la potenzialità delle proprie materie prime in ricchezza per l'economia nazionale. Questo è dovuto sia alle difficoltà legate ad un lento e non completo percorso di indipendenza economica, sia alle condizioni superimposte dagli organismi internazionali.

Se nell'ambito di grandi istituzioni, quali l'OMC, i Paesi più ricchi e sviluppati riescono ad avere un peso maggiore per tutelare i propri interessi, violando lo spirito delle leggi internazionali su cui tali organizzazioni si fondano, il mercato non sarà mai un'opportunità uguale per tutti.

L'Africa, d'altra parte, dovrà al più presto organizzarsi come entità regionale unita, per esprimersi in modo più forte e credibile nel mercato del cotone. Le piccole realtà dei produttori sparse negli Stati occidentali e centrali del continente africano sono il motore del settore cotonifero. Senza una politica commerciale regionale integrata, però, rischiano di fallire.Copyright Equilibri