I cristiani iracheni aggrappati alla loro fede nell’esilio giordano

AMMAN, 24 maggio 2010 (IPS) – Con l’inizio dell’invasione dell’Iraq guidata dagli Stati Uniti, nel 2003, i cristiani iracheni hanno cominciato a riversarsi oltre confine nella vicina Giordania. Oggi la maggior parte di loro vive ancora qui, in condizioni di estrema povertà e senza alcuna speranza di tornare nella terra dei propri antenati.

“Abbiamo perso la nostra patria, non vogliamo perdere la nostra fede”, afferma Brahim, un insegnante di chimica di 65 anni e cristiano iracheno, residente ad Amman.

Secondo i dati dell’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite (Unhcr), la maggior parte dei rifugiati iracheni si trova in Siria, dove se ne registrano circa 220mila. In Giordania ne sono stati censiti circa 47mila e in Libano 10mila.

“Il numero dei cristiani iracheni che si sono rifugiati in Giordania è sceso notevolmente, passando dalle 30mila unità di pochi anni fa alle 10 o 15mila attuali”, afferma il vicario padre Raymond Moussalli.

La maggior parte dei cristiani che risiedono in Giordania appartengono alla Chiesa caldea, siriaca, assira e protestante. “Molti di noi parlano il Caldeo, che è molto simile alla lingua originale di Nostro Signore Gesù Cristo”, afferma Oussama, un cristiano iracheno di 24 anni.

Ogni giorno, i cristiani si radunano nel seminterrato della piccola Chiesa caldea di Webdeh hills, la loro sede centrale. Si incontrano per scambiarsi i racconti sulla loro madrepatria, per pregare in silenzio o semplicemente per cercare il conforto degli altri rifugiati che, come loro, sono costretti a vivere in un paese straniero. Molti abitano nella zona o in altri quartieri della città vecchia di Amman, come Jabal Hussein o Markah.

“La comunità internazionale è diventata indifferente alla difficile situazione dei cristiani che ancora risiedono in Iraq, che prima erano quasi un milione mentre oggi sono meno di 400mila”, lamenta Brahim.

Batoul, di circa sessant’anni, è fuggita dalla capitale irachena solo pochi mesi fa. “Eravamo proprietari di due palazzi a Bagdad. Una mattina mi sono svegliata e ho visto che qualcuno aveva scritto un messaggio con la vernice rossa sul muro del giardino. Diceva che ci avrebbero uccisi se non ci fossimo presentati con 80mila dollari. La polizia ci ha chiesto di abbandonare immediatamente il paese, perché non aveva i mezzi per proteggerci”, racconta la donna con tristezza.

La storia di Brahim è simile. “Lavoravo come insegnante in una scuola cristiana e mi sono licenziato quando Padre Youssef Aboudi, il nostro preside, è stato ucciso da alcuni militanti perché accusato di proselitismo. Le minacce sono proseguite anche quando ero a casa. Alla fine ho dovuto andarmene per il bene di mia figlia che ha 24 anni”, ha aggiunto.

Molti rifugiati iracheni scappano con poche risorse economiche e per di più devono fronteggiare le difficoltà che incontrano nelle terre di destinazione. Ad esempio, gli iracheni che chiedono la residenza in Giordania, necessaria per lavorare, devono versare circa 50mila dollari statunitensi su un conto speciale. I rifugiati registrati all’Unhcr hanno i documenti come richiedenti asilo, ma senza residenza non possono lavorare legalmente e perciò non hanno accesso alla sanità e alla scuola.

“Le condizioni di vita sono estremamente difficili e le spese sono molte. Abbiamo bisogno di mille dollari al mese solo per sopravvivere, e la maggior parte di noi non può lavorare senza avere la residenza”, afferma Brahim, aggiungendo che molti riescono appena a permettersi l’affitto mensile di 200 dollari e per questo hanno deciso di trasferirsi in Libano, dove sembra che il processo dell’Unhcr per l’accoglienza ai rifugiati sia più breve.

Secondo Padre Moussali, circa il 50 per cento dei cristiani che frequentano la sua chiesa vive in condizioni di estrema povertà. L’alto tasso di disoccupazione e lo status precario dei rifugiati amplificano il senso di emarginazione della comunità cristiana.

“Preferiamo starcene in casa, con la nostra gente”, afferma un cristiano che ha preferito restare anonimo. Alle difficili condizioni di vita, spiega il sacerdote, si aggiungono altri ostacoli di natura psicologica, dovuti ai traumi subiti in Iraq e all’incertezza per il futuro. E sono in aumento problemi come l’abbandono scolastico, la violenza domestica, il contrabbando e lo sfruttamento.

“La maggior parte di loro si trova in un limbo, aspetta di partire per l’Australia, l’America o l’Europa”, sottolinea Oussama, che ha i familiari in Australia.

Padre Moussalli fa notare che le relazioni tra la comunità cristiana e lo stato Giordano sono eccellenti. “A differenza dell’Iraq, qui non siamo vittime delle persecuzioni a causa del nostro credo”.

Oussama è d’accordo con quanto affermato dal prete e aggiunge che quando c’è un problema i cristiani vengono trattati come tutti gli altri residenti. Sembra però che alcuni bambini siano stati spinti a convertirsi all’Islam.

“Per ora restiamo in Giordania con la speranza di tornare a casa nostra”, afferma Brahim. “Siamo parte della storia e della cultura di questa regione, e se saremo costretti ad abbandonarla, non sarà più la stessa”. © IPS