Intervista: Le donne sono parte integrante nei processi di pace

NEW YORK, 23 marzo 2011 (IPS) – Undici anni fa, i 192 paesi membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) si sono impegnate a promuovere l’integrazione delle donne nei processi mondiali di costruzione della pace, una promessa che resta fondamentalmente incompiuta.

Mavic Cabrera-Balleza  
 Concessione GNWP

Mavic Cabrera-Balleza

Concessione GNWP

Secondo Mavic Cabrera-Balleza, organizzazioni regionali come Unione europea e Unione africana, che obbligano i loro membri a realizzare e a riferire dei progressi compiuti, “sono un passo avanti” rispetto alle Nazioni Unite, che non hanno regolari meccanismi di responsabilità.

Come coordinatrice internazionale della Rete globale delle donne costruttrici di pace, formata da 50 gruppi non governativi di Africa, America Latina, Asia e Europa, Cabrera-Balleza ha parlato con l’IPS delle sfide delle donne di tutto il mondo.

D: Lei ha appena realizzato uno studio sui progressi compiuti in 11 paesi in termini di partecipazione femminile negli sforzi nazionali per impedire la guerra e costruire la pace. Che cosa ha scoperto?

MAVIC CABRERA-BALLEZA: Uno dei problemi principali è quello che noi chiamiamo “divario di responsabilità” (accountability gap): non c’è niente che costringa gli stati membri dell’Onu a riferire sulle azioni e le iniziative compiute per applicare la risoluzione 1325 (sulle donne, la pace e la sicurezza), a parte le belle parole che si sentono ogni ottobre nel dibattito aperto al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Ma questo non è informare.

Un secondo dato emerso dallo studio è la costante mancanza di partecipazione femminile nei processi decisionali, un problema legato anche all’assenza di donne nei negoziati di pace ufficiali. Quando i negoziati sono informali, le donne ci sono e vengono riconosciute, ma quando diventano ufficiali, scompaiono.

La ragione è che in questi negoziati di pace viene dato più potere a chi possiede armi o ha partecipato ai combattimenti. Perciò, non è che le donne non abbiano i mezzi per contribuire, ma ci sono delle barriere strutturali alla loro partecipazione, e questo deve cambiare.

Abbiamo anche capito che l’accesso delle donne nei settori della giustizia e della sicurezza è ancora molto lento. C’è stato un cambiamento nel sistema giudiziario, anche se non in misura decisiva: circa il 30 percento dei funzionari nel settore sono donne.

Nel campo della sicurezza – polizia e esercito – in tutti i paesi esaminati c’è ancora una forte prevalenza maschile. La partecipazione delle donne nelle forze armate, per esempio, è inferiore al nove percento in otto dei nove paesi che hanno fornito informazioni.

D: Avete trovato un modo per far fronte a questi ostacoli?

R: Per cominciare a colmare il “divario di responsabilità” abbiamo difeso l’adozione di una raccomandazione generale sui conflitti armati nella Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (Cedaw).

Se la raccomandazione verrà adottata, gli stati che hanno ratificato la Cedaw, 186 in totale, sarebbero costretti a fornire resoconti regolari al Comitato sull’implementazione della risoluzione 1325.

E le organizzazioni non governative (Ong) che stanno presentando i loro rapporti paralleli alla Cedaw dovrebbero incorporare in modo più consapevole la risoluzione, e stanno già cominciando a farlo.

D: Secondo alcune critiche, le Ong e le agenzie delle Nazioni Unite sarebbero in competizione tra loro per ottenere visibilità e risorse, invece di lavorare insieme.

R: Sì, succede spesso, è incredibile quanto. Tutti (i gruppi di donne, le organizzazioni della società civile e le agenzie dell’Onu) ricorriamo agli stessi donatori. Ciò che stiamo proponendo è che l’Onu non ripeta ciò che le Ong e altre agenzie stanno facendo, e invece fornisca dei modelli o degli esempi catalizzatori, che possano essere replicati in altri settori.

Il mondo è grande e ci sono tanti problemi. Non dovremmo cercare di lavorare tutti e allo stesso tempo nella Repubblica Democratica del Congo o in Afghanistan. Ci sono molti luoghi che hanno bisogno di attenzione.

La competizione e la mancanza di riconoscimento sono in una certa misura motivate dal bisogno di visibilità e di attirare l’attenzione dei donanti sul lavoro individuale, non su quello collettivo.

D: La Rete globale ha fatto parte del comitato esecutivo delle Ong nella sessione numero 55 della Commissione sullo status delle donne (Csw, nell’acronimo inglese), che si è tenuta appena due settimane fa a New York. Quali sono le principali sfide del forum?

R: La Csw continua ad essere l’unico spazio al mondo dove portare avanti un regolare dibattito sulle politiche incentrate sulle donne. Non esiste nient’altro. Riunisce un buon numero di partecipanti, a prescindere dal tema. Mi piacerebbe che la Csw e l’agenzia UN-Women, creata a luglio dello scorso anno e che funziona da segretariato della Commissione, si rendano conto del loro potere di convocazione e mobilitazione.

Purtroppo, nella Csw c’è un problema strutturale: non è chiaro dove vadano a finire le conclusioni concordate, né come influiscano sugli altri dibattiti in seno all’Onu.

Un altro problema persistente è il rifiuto di alcuni paesi membri dell’Onu di riconoscere che la parità di genere deve occupare un posto di primo piano in qualsiasi dibattito politico. Non si può più sfuggire a questo. Le donne sono parte del processo a tutti gli effetti. Quando si parla di pace, diritti umani e sviluppo, che sono i settori più importanti all'interno dell’Onu, il genere è una parte integrante fondamentale. © IPS