Bisogna ribaltare completamente il nostro punto di vista

ONU, 5 maggio 2010 (IPS) – 'Avatar', il kolossal acclamato dalla critica cinematografica, porta sullo schermo lo spietato sfruttamento dell’ecosistema incontaminato di un pianeta lontano a vantaggio di un’avida multinazionale. Uno scenario troppo familiare anche a molte comunità indigene qui sulla Terra.

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La corrispondente dell’IPS Marguerite A. Suozzi ha incontrato il regista James Cameron in occasione la nona sessione del Forum permanente delle Nazioni Unite per le questioni indigene. Alcuni estratti dell’intervista.

D: Crede che osservare quanto la natura sia cambiata nel tempo abbia inciso sulla creazione di 'Avatar'?

R: Credo che quando ci si sente connessi alla natura e si capisce ciò che tutti noi, intesi come società, stiamo facendo… forse si percepisce una sorta di dovere morale, e per quanto riguarda me, è mio dovere di artista dire qualcosa, e io lavoro nel mondo dell’intrattenimento commerciale.

L’intrattenimento commerciale, solitamente, non è la piattaforma utilizzata per questo genere di comunicazione. Di norma ci sono i documentari che lo fanno, il problema, però, è che, rispetto a un film di intrattenimento di massa che arriva a tutti, il documentario si rivolge prevalentemente a un pubblico che già conosce il problema. Quello che volevamo riuscire a fare con 'Avatar', pur senza essere didascalici e rimanendo nel contesto di una trama avventurosa, era proprio affrontare questi temi e offrire al pubblico non solo una sorta di reazione intellettuale, ma un film potente, toccante e catartico.

D: Come possiamo conciliare un sistema che valorizzi la scienza, lo sviluppo, il progresso e le scoperte senza danneggiare i diritti delle popolazioni indigene?

R: È lo sviluppo che danneggia, sono le infrastrutture come le dighe, le autostrade e i gasdotti. Sono gli scarichi industriali, l’inquinamento, i liquami delle raffinerie petrolifere. E siamo noi consumatori e la nostra società consumista che, attraverso le forze di mercato, determiniamo una costante espansione della nostra presenza industriale, delle nostre industrie estrattive, eccetera.

Non sono gli scienziati, io credo che gli scienziati sappiano di sicuro come interagire con loro e con molta, moltissima calma – e cercando di avere il minimo impatto possibile – studiano e imparano la biodiversità delle foreste pluviali. Gli antropologi studiano le culture delle popolazioni indigene in un modo assolutamente non invasivo. Invece le industrie estrattive, le grandi aziende e tutti quelli che fanno parte di quel mondo, se ne fregano. Se potessero farlo senza il minimo scrupolo, sono certo che lo farebbero.

Attualmente questo processo ha subìto una battuta d’arresto grazie al riconoscimento dei diritti delle popolazioni indigene, che sono stati stabiliti costituzionalmente e riconosciuti in diverse dichiarazioni, ma nella maggior parte dei casi, non ci si impegna molto per tutelarli. Spesso le regole non vengono rispettate, e questa gente è costretta a usare il proprio denaro e le proprie risorse per combattere le battaglie legali e difendersi.

D: Cosa pensa della possibilità di utilizzare le conoscenze degli indigeni per trovare una via di uscita?

R: Io credo che la gente tenda a impantanarsi, ci sono alcune pratiche sciamaniche delle culture indigene che ci conducono alla creazione di composti farmaceutici sfruttando la grande biodiversità della foresta pluviale, e questo è provato. Le conoscenze specifiche delle popolazioni indigene che noi stessi utilizziamo, sono una sorta di proprietà intellettuale dalla quale loro dovrebbero trarre vantaggio. In altre parole, gli indigeni dovrebbero riuscire a beneficiare dell’uso delle loro conoscenze, ma non credo che sia questo il punto.

La questione principale è che esiste un sistema di valori che gli ha permesso di vivere in armonia con la natura per tanto tempo, e quei principi, quella saggezza, quella connessione spirituale con il mondo, quel senso di responsabilità reciproca sono esattamente quello che dobbiamo imparare da loro. Significa ribaltare completamente il modo in cui vediamo le cose. Non sono neanche sicuro che saremmo in grado di farlo, ma se una speranza esiste, starà nella nostra abilità di invertire la rotta della nostra coscienza, imparando a non prendere di più di quello che diamo.

D: C’è stato chi ha criticato il suo film per aver descritto un protagonista bianco come l’eroe che salva la popolazione Na’vi. Come risponde a questa reazione contro il “messia bianco”?

R: No, io non ci credo. E in ogni caso, non credo che qualcosa del genere sia stata percepita da chi, guardando questo film, vi ha riconosciuto parte della propria realtà, o che gli abbia impedito di apprezzare il film.

D: Ha ricevuto qualche reazione da parte delle comunità indigene?

A: Sono state incredibilmente positive. Forse perché le ho ricevute da chi ha voluto parlarmi direttamente, ma non ho mai sentito nessuno che mi venisse incontro urlando qualcosa in merito a un messia bianco..

Io credo che si debbano distinguere i problemi degli afroamericani di questo paese, che sono di natura socioeconomica e riguardano la povertà, l’avere una voce all’interno del sistema politico e tutto questo insieme di problematiche che storicamente conosciamo bene, dai veri e propri problemi di sopravvivenza che si presentano quando arrivano i bulldozer ad abbattere la tua foresta e una forza industrializzata e ultra motorizzata sta distruggendo tutto il tuo mondo.

Quando tutto ciò che possiedi per rispondere è un arco e delle frecce, allora c’è bisogno dell’intervento della comunità internazionale. Quindi, non mi interessa di che razza siano i messia, mi interessa solo che noi tutti riusciamo a essere quei messia. Abbiamo il dovere di aiutare queste popolazioni perché non si può fermare un bulldozer con un arco e una freccia.

A parte questo, è assolutamente fondamentale che i capi delle popolazioni indigene possano esprimersi con la propria voce, sono loro che vengono messi all’interno del processo politico, ed è fondamentale perché ciò avvenga. Non voglio certo essere io a parlare al posto loro.

D: Secondo le ultime notizie, sembra che il progetto della diga di Belo Monte, che lei ha duramente criticato, stia andando avanti.

R: Non è facile dirlo, non hanno ancora costruito nulla. Era stata emessa una direttiva contro il progetto e per questo motivo è stato bloccato per diverse volte, credo anche che ci sia stata una terza ingiunzione contro l’appalto, che poi è stata rovesciata dalla corte suprema perché non sussisteva alcuna minaccia diretta per gli indigeni in quanto i lavori di costruzione non erano ancora iniziati.

Stando a quanto ho sentito dire, ci sarebbero altri passaggi da discutere prima che si passi all’effettiva costruzione della diga. Quindi, per quanto ne so io, la battaglia è appena cominciata. In realtà non ci aspettavamo di vincere questo round, volevamo solo ottenere quello che in effetti abbiamo ottenuto: porre l’attenzione sul problema sia in Brasile che di fronte alla comunità internazionale. Se ne è parlato sulla prima pagina del New York Times, e ora se ne occupano tantissimi giornali.

Oggi, nonostante il modo insolito che ci ha portato a questa conquista, il compito di impedire che la diga venga costruita sta non solo nelle mani delle Ong e della giurisdizione brasiliana, ma anche in quelle dei capi indigeni, che hanno finalmente ottenuto un po’ di spazio per potersi esprimere con la propria voce.