EDITORIALE: Scioglimento dei ghiacci, frontiere incandescenti

BARCELLONA, 14 gennaio 2010 (IPS) – Il disgelo dell’Artico sta provocando una corsa per il controllo delle risorse naturali dell’area compresa tra Russia, Norvegia, Danimarca, Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti.

Si conferma sempre di più che il disgelo dei poli, tanto dell’Artico quanto dell’Antartico, si sta producendo a un ritmo sensibilmente superiore al previsto. Le conseguenze di questo fenomeno sulla pace sono enormi.

Il disgelo si produce anche tra i ghiacciai e le zone di alta montagna, fino ad oggi considerate nevi perpetue. Un caso paradigmatico è quello della frontiera alpina tra la Svizzera e l’Italia, dove gli ultimi controlli di routine sui confini hanno evidenziato la scomparsa di diversi tratti della linea individuata nel 1861 sullo spartiacque dei ghiacciai o sulle nevi perenni.

In questo caso, si è imposta la logica di decenni di relazioni pacifiche e il tema si avvia verso una soluzione tecnica mediante una commissione formata dai rappresentanti dei due paesi.

Ma le implicazioni di casi analoghi su altri contesti geografici e politici sono davvero preoccupanti.

Prendiamo ad esempio l’enorme potenziale destabilizzante che potrebbe avere una situazione simile sulla frontiera tra India e Pakistan, soprattutto sull’area contesa del Kashmir e più specificatamente sul ghiacciaio di Siachen, dove dal 1984 sono morti nel corso di operazioni militari più di 3mila soldati di entrambi i paesi.

Lo stesso potrebbe accadere lungo l’irrequieta frontiera tra India e Cina, o il più problematico confine tra Pakistan e Afghanistan che, con il disgelo, sarà progressivamente sempre più permeabile, contribuendo così ad accrescere la destabilizzazione di due paesi che sono già tra i più instabili al mondo.

Un altro effetto molto significativo è la progressiva apertura, sempre a causa del disgelo, dei cosiddetti passi del Nord Ovest e del Nord Est: nuove vie marittime fino ad oggi impraticabili, che cambieranno radicalmente le dinamiche commerciali su scala globale, collegando gli oceani Atlantico e Pacifico.

Con il passo del Nord Est, recentemente utilizzato per la prima volta, la navigazione attraverso il nord della Russia e della Siberia ridurrà di oltre 4mila chilometri la distanza tra i porti di Giappone, Corea del Sud e Cina e quelli di Amburgo, Rotterdam o Southampton. Con il passo del Nord Ovest, facendo rotta per il nord del Canada, accadrà qualcosa di simile tra i porti della “fabbrica del mondo”, la Cina, e quelli della costa statunitense.

L’apertura di queste nuove vie potrebbe togliere importanza a zone considerate fino ad oggi punti chiave dal punto di vista geostrategico, come i canali di Suez e di Panama.

A questo si sommano le aspettative di enormi riserve di materie prime nell’Artico – solo in petrolio, l’agenzia russa TASS calcola più di 10 miliardi di tonnellate – sempre più accessibili in seguito al disgelo. Ciò sta provocando una corsa per il controllo della zona che ha aumentato le tensioni soprattutto tra Russia, Norvegia, Danimarca, Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti, arrivando perfino a scatenare un’escalation della corsa agli armamenti nella regione.

Nel 2008, il Canada ha approvato una missione straordinaria di 6,9 miliardi di dollari per rafforzare la propria presenza militare nella regione artica del suo paese. E la ripresa da parte della Russia dei voli strategici di cacciabombardieri nucleari nelle regioni polari ha già suscitato le proteste di diversi paesi.

Questo spiega in parte la fretta con cui l’Unione Europea sta promuovendo l’adesione al blocco dell’Islanda in bancarotta, per assicurarsi una buona posizione nei futuri negoziati e reclami territoriali nella zona, di fronte alla possibilità di partecipare al grande “banchetto artico”.

Il disgelo dei poli è anche la causa principale dell’aumento del livello dei mari, che ha altre conseguenze irreversibili di natura territoriale, sociale ed economica, come la scomparsa effettiva prevista, totale o parziale, di diversi Stati insulari dell’oceano Pacifico (Maldive, Samoa, Kiribati, ecc.).

A parte i drammi personali, ambientali, culturali e nazionali che questo comporta, vi sono ovviamente una serie di implicazioni di tipo politico e giuridico rispetto alle possibilità di futuri Stati senza territorio.

Per di più, l’aumento del livello dei mari minaccia gravemente una parte delle principali infrastrutture su scala mondiale, come porti, raffinerie, aeroporti e centrali nucleari che si trovano, in molti casi, molto vicine al mare. A questo dobbiamo aggiungere che gran parte della popolazione mondiale vive in zone molto vicine alla costa, a cominciare da megalopoli densamente popolate come Mumbai, Londra, New York, Shangai, Tokyo o Buenos Aires, e a seguire con altre regioni densamente popolate come il delta del Gange in Bangladesh, dove l’incremento del livello del mare sta già provocando gravi danni per il progressivo inquinamento dell’acqua e altri effetti derivati.

Recenti studi sottolineano che nei prossimi anni circa 200 milioni di persone potrebbero diventare i nuovi “rifugiati ambientali”, che non faranno che aumentare la pressione umanitaria e le tensioni in quelle zone, esacerbando i conflitti esistenti o latenti. Il Forum umanitario globale ha presentato nel 2009 un rapporto che dimostra in modo inequivocabile che oggi le vittime del cambiamento climatico si possono quantificare in 300mila morti annuali. E le cifre aumentano nelle proiezioni sul medio e lungo periodo.

In questo contesto, la lotta contro il cambiamento climatico condiziona direttamente un futuro di pace. Per questo la comunità internazionale ha l’obbligo, soprattutto dopo il fiasco di Copenhagen, di rimboccarsi le maniche. È in gioco il clima, ma anche la pace e le vite umane, un gran numero di vite umane. ©IPS

* Manuel Manonelles, direttore della Fondazione Cultura de Paz.