AMBIENTE: La penuria di cibo può causare la scomparsa della nostra civiltà?

WASHINGTON, 7 ottobre 2009 (IPS) – All’inizio del 2008 l’Arabia Saudita, dopo essere stata autosufficiente nella produzione di frumento per oltre 20 anni, ha annunciato che la falda acquifera non ricaricabile da cui si è approvvigionata per l’irrigazione è quasi esaurita.

Per tutta risposta, i funzionari locali hanno detto che avrebbero ridotto il raccolto di frumento di un ottavo all’anno, fino a cessare completamente la produzione entro il 2016. Dopo questa data, i sauditi dovranno sostanzialmente importare tutto il frumento consumato dalla loro popolazione, che conta circa 30 milioni di abitanti (quasi quanto il Canada).

I sauditi sono i soli a dipendere completamente dall’irrigazione, ma altri paesi produttori di frumento molto più grandi dell’Arabia Saudita, come India e Cina, stanno iniziando a soffrire del calo dell’acqua per l’irrigazione e potrebbero trovarsi a fronteggiare una brusca diminuzione della loro produzione cerealicola.

Nuove tendenze minacciano la sicurezza alimentare

Il 15 per cento del raccolto cerealicolo indiano è ottenuto grazie allo sfruttamento intensivo delle acque sotterranee; in rapporto ai consumi umani, ciò equivale a dire che 175 milioni di indiani si nutrono di frumento prodotto tramite pozzi che presto saranno prosciugati. In Cina il fenomeno riguarda 130 milioni di persone. Tra i numerosi paesi che devono gestire la riduzione dei raccolti a causa dell’esaurimento delle falde acquifere ci sono il Pakistan, l’Iran e lo Yemen.

Il fatto che sul mercato mondiale il prezzo di grano, riso e mais sia triplicato tra la metà del 2006 e la metà del 2008 sta a indicare la nostra crescente vulnerabilità di fronte alla scarsità di risorse alimentari. C’è voluta la peggiore crisi economica mondiale dopo la Grande Depressione per abbassare il prezzo dei cereali.

Anche in passato si erano registrate impennate dei prezzi mondiali dei cereali, ma erano dovute a degli avvenimenti: la siccità nell’ex URSS, la mancanza o il ritardo di un monsone in India, o un’ondata di caldo con conseguente essiccamento dei raccolti nella “Cintura del granoturco” americana. La rinnovata impennata dei prezzi, invece, è dovuta a una tendenza, è il risultato della nostra incapacità di invertire l’andamento di alcuni fenomeni ambientali che oggi minacciano la produzione alimentare mondiale.

Oltre alla riduzione delle superfici freatiche, tra i fenomeni ci sono l’erosione del suolo e l’aumento delle temperature dovuto alle crescenti emissioni di gas serra. A sua volta, questo produce ondate di calore che provano l’essiccamento dei raccolti, sciolgono le croste ghiacciate, fanno innalzare il livello dei mari e ridurre i ghiacciai.

Considerato che sia le croste ghiacciate della Groenlandia che dell’Antartide occidentale si stanno sciogliendo sempre più rapidamente, il livello del mare potrebbe innalzarsi di quasi 200 centimetri durante questo secolo: un aumento che provocherebbe l’inondazione di buona parte del delta del Mekong, zona produttrice di metà del riso del Vietnam, secondo esportatore mondiale di riso. Ma basterebbe un aumento del livello del mare di circa un metro per coprire metà delle risaie del Bangladesh, nazione di oltre 160 milioni di abitanti. E questi non sono che due dei tanti delta asiatici dove si coltiva il riso.

Lo scioglimento dei ghiacciai continua incessante da 18 anni. Molti ghiacciai minori sono già scomparsi. La zona in cui la pericolosità del fenomeno è maggiore è senz’altro l’Himalaya, e quella dell’Altopiano del Tibet, dove il ghiaccio sciolto non solo mantiene il flusso dei fiumi Indu, Gange, Yangtze e del Fiume Giallo durante la stagione arida, ma anche i sistemi di irrigazione che ne dipendono. Senza questi ghiacciai molti fiumi asiatici cesserebbero di scorrere durante la stagione secca.

Le conseguenze ricadrebbero direttamente sui raccolti di grano e riso della Cina e dell’India. La Cina, infatti, è il maggior produttore mondiale di grano; l’India è il secondo (seguita dagli USA). Con il riso, Cina e India dominano totalmente i raccolti del pianeta, dunque la proiezione sullo scioglimento di questi ghiacciai costituisce la minaccia più allarmante per la sicurezza alimentare che il mondo abbai mai dovuto affrontare.

Segnali di declino della nostra civiltà?

Il numero di persone denutrite, che per alcuni decenni aveva fatto registrare un’inflessione, raggiungendo il punto più basso a metà degli anni ’90, con 825 milioni di persone, nel 2009 è balzato oltre il miliardo. Secondo le proiezioni attuali i prezzi del cibo continueranno ad aumentare, e così pure il numero di persone denutrite.

Dallo studio dei Sumeri, dei Maya e di molte altri civiltà del passato emerge che una delle principali cause di estinzione dei popoli è stata proprio la scarsità di cibo. E oggi ci troviamo di fronte alla possibilità che il cibo sia l’anello debole anche della civiltà del XXI secolo.

Faremo la fine dei Sumeri e dei Maya, o saremo in grado di mutare il corso degli eventi prima che sia troppo tardi? Saremo in grado di scegliere un percorso economico sostenibile? Noi crediamo di sì. Di questo si occupa il Piano B 4.0.

Mobilitiamoci per salvare una civiltà

Il Piano B si prefigge di stabilizzare il clima e la popolazione, di sradicare la povertà e ristabilire i sistemi di supporto naturali dell’economia. Esso prevede la riduzione mondiale delle emissioni nette di anidride carbonica dell’80 per cento entro il 2020, permettendo così una concentrazione di CO2 nell’atmosfera sotto la soglia di 400ppm.

Per ridurre le emissioni di CO2 serve una rivoluzione planetaria nell’efficienza energetica e il passaggio dall’uso di petrolio e carbone all’uso di energia eolica, solare e geotermica.

Oggi il passaggio all’impiego di fonti energetiche rinnovabili ha un ritmo e una scala inimmaginabili perfino due anni fa.

Pensiamo al Texas: la quantità enorme di centrali eoliche in fase di sviluppo, oltre ai 9mila megawatt di energia eolica producibile, tra quelle già operative e quelle in costruzione, permetterà a questo stato americano di produrre oltre 50mila megawatt di energia eolica (l’equivalente di 50 centrali termiche a carbone per intenderci). Quando tutti questi parchi eolici saranno completati, ciò sarà più che sufficiente a soddisfare le esigenze della popolazione del Texas, che conta 24 milioni di abitanti.

A livello nazionale negli USA, la capacità di produzione di energia eolica nel 2008 ammontava a 8.400 megawatt, contro i 1.400 megawatt dei nuovi impianti a carbone. Presto anche l’aumento annuale di produzione di energia solare sarà superiore: la “transizione energetica” è già in atto.

Negli ultimi quattro anni gli Stati Uniti si sono piazzati al primo posto come potenziali produttori di energia eolica, rubando il record alla Germania nel 2005. Questo record positivo, però, non durerà a lungo. La Cina è all’opera su sei mega-centrali eoliche con capacità produttiva compresa tra 10mila e 30mila megawatt, per un totale di 105mila megawatt, che si sommano a quella delle centinaia di parchi eolici minori già costruiti o in cantiere.

L’energia eolica, comunque, non è la sola possibilità. Nel luglio 2009 alcuni enti pubblici europei si sono consorziati, sotto la guida di Munich Re; del consorzio fanno parte anche Deutsche Bank, Siemens, e ABB, oltre a una compagnia algerina. Il nuovo consorzio ha proposto di monitorare l’enorme capacità produttiva di energia solare del Nord Africa e del Mediterraneo orientale.

Dotare il Nord Africa di impianti solari termici consentirebbe di coprire metà del fabbisogno energetico europeo a costi economici. L’Algeria, poi, ha aggiunto che nel proprio deserto dispone di energia solare sufficiente a rifornire di energia l’intera economia mondiale. (Sì, avete letto bene.)

L’aumento vertiginoso degli investimenti nell’energia eolica, solare e geotermica è sostenuto dall’aver finalmente compreso che queste risorse energetiche rinnovabili possono durare quanto la terra stessa. Una differenza abissale rispetto agli investimenti in nuovi campi petroliferi, dove i pozzi iniziano a ridursi nel giro di pochi decenni, oppure nelle miniere di carbone, i cui filoni si esauriscono: queste nuove fonti energetiche possono durare per sempre.

Soglie di tolleranza

Ce la giochiamo, tra soglie di tolleranza politiche e naturali. Sapremo ridurre le emissioni di CO2 in tempo per salvare la crosta ghiacciata della Groenlandia ed evitare così l’innalzamento dei mari? Possiamo chiudere in tempo gli impianti a carbone in modo da salvare almeno i maggiori ghiacciai dell’Himalaya e dell’Altopiano del Tibet? Riusciremo a stabilizzare la crescita della popolazione riducendo il tasso di fertilità prima che la natura ci sopraffaccia e riduca la popolazione aumentandone la mortalità?

La risposta è sì. Ma ci vorrà qualcosa di simile a una mobilitazione da tempi di guerra, come quella del 1942 negli USA, capace di rinnovare la propria economia industriale in pochi mesi. Fino a poco tempo fa, parlavamo di salvare il pianeta. Adesso è ora di salvare la nostra civiltà.

Una civiltà non si salva stando seduti sul divano: ognuno di noi deve collaborare a un cambiamento tempestivo. Armati di un piano che indichi i cambiamenti necessari.

*Lester R. Brown è fondatore e presidente dell’Earth Policy Institute. Il testo “Plan B 4.0: Mobilising to Save Civilisation” è scaricabile gratuitamente alla pagina http://www.earth-policy.org/.