ROMA, 15 aprile 2009 (IPS) – Le grandi depressioni mondiali, come quella attuale, scatenano un effetto domino, e finiscono per colpire quasi tutte le attività economiche e sociali. Ma l’attenzione dei mezzi di comunicazione si focalizza su alcune delle loro molteplici e continue manifestazioni, quelle che scuotono i grandi centri del potere, mentre si interessa poco o niente alla periferia, dove la povertà aggravata dalla crisi assesta le conseguenze più drammatiche.
Lo stiamo vedendo giorno dopo giorno da più di un anno: le prime pagine parlano delle migliaia di milioni di dollari che i paesi sviluppati riversano sulle loro grandi banche per salvarle in extremis; degli incontri e i dibattiti nelle capitali del Nord per fronteggiare la crisi; dell’aumento della disoccupazione e il calo della crescita nei paesi industrializzati. Le informazioni sul sistema finanziario e sulla recessione nei restanti due terzi del pianeta meritano solo qualche citazione scarsa e frammentaria.
Il trattamento disuguale dell’informazione che privilegia il Nord e lascia indietro il Sud non è una novità, ma risalta nel mezzo della crisi economica, quando è maggiore la necessità che l’opinione pubblica conosca la situazione dei paesi in via di sviluppo e possa sostenere le politiche di cooperazione economica internazionale.
Questo avviene mentre assistiamo ad una trasformazione dei mezzi di comunicazione, che colpisce in particolare la stampa quotidiana e riduce progressivamente lo spazio riservato dai media all’informazione internazionale e ai temi globali “che vendono poco”, come la povertà, il cambiamento climatico, la crescita sostenibile, i diritti umani, la democratizzazione e la sicurezza intesa come soluzione pacifica dei conflitti, il disarmo e la non proliferazione nucleare.
Mentre la depressione, benché profonda, sia necessariamente passeggera, e presto o tardi lascerà il posto ad una fase di crescita economica, la trasformazione dei mezzi di comunicazione è strutturale, e perciò la tendenza a ridurre lo spazio delle notizie internazionali e degli avvenimenti globali sembra destinata a prolungarsi.
Questo processo avverso alla stampa cartacea tradizionale – quotidiani, riviste e periodici – comincia con la concorrenza della televisione dopo la seconda Guerra mondiale, seguita più recentemente dall’accesso gratuito via Internet alle edizioni elettroniche dei giornali, a cui si aggiunge la comparsa dei media cartacei ed elettronici gratuiti, finanziati solo dalla pubblicità. Tutto questo porta gran parte della pubblicità ad emigrare verso i nuovi mezzi, e alla conseguente tendenza allo sbilancio finanziario dei media tradizionali.
È significativo il caso degli Stati Uniti: qui, negli ultimi due anni, i lettori di informazioni online sono aumentati del 19%, mentre solo nel 2008 i lettori dei principali 50 siti web sono il 27% in più: è un chiaro esempio del passaggio dai media stampati a quelli elettronici. Contemporaneamente, la pubblicità che ha abbandonato la stampa scritta è di molto superiore a quella che si è rivolta ai media gratuiti online, e a questo deficit si aggiunge la sensibile riduzione nella vendita di giornali.
Anche oggi negli Stati Uniti la tiratura complessiva dei quotidiani cartacei raggiunge 48 milioni di persone, e molti di questi giornali continuano a produrre profitti. Ma negli ultimi due anni le entrate sono diminuite del 23%.
Per sopravvivere – visto che alcuni sono falliti e altri barcollano – i media riducono il personale, chiudono le sedi dei corrispondenti esteri, ipotecano parte delle loro proprietà, si limitano alle versioni virtuali e/o riducono il numero delle pagine. Si stima che il settore del giornalismo Usa si sia ridotto del 10% l’anno scorso e che, tra il 2001 e la fine di quest’anno, il calo dell’occupazione in questo campo raggiungerà un 25%.
Si spiega così la convinzione diffusa che in un futuro prossimo possa scomparire l’edizione scritta di un giornale come il New York Times – che ha accumulato un debito di 400 milioni di dollari – e che sopravviva solo la sua versione elettronica. È un’incognita, visto che con le entrate della versione online, il Times potrà mantenere solo il 20% dell’attuale team giornalistico.
Siamo di fronte ad un processo complesso e contrastante, che solo in parte potrà attenuare un’inversione del ciclo economico; per questo, preoccupano gli effetti negativi sull’informazione legata ai temi dello sviluppo. I media che se ne occupano, che siano i nuovi o i tradizionali, sono caratterizzati da una dispersività. Hanno difficoltà a focalizzare il messaggio, al contrario delle multinazionali delle comunicazioni, che impongono i loro temi all’agenda dell’informazione internazionale. Uno dei passi che questi mezzi potrebbero intraprendere è organizzare un sistema di scambio (simile a quello di alcune reti di grandi giornali) sui temi dello sviluppo, condividendo un’informazione specializzata e professionale. Ma serve molto di più per contrastare queste tendenze.
Fronteggiare questa situazione non è solo compito dei comunicatori. A questa battaglia devono partecipare la società civile, attore dinamico e al tempo stesso consumatore di questa informazione; i circoli accademici, nel formare i professionisti di fronte a questa fase difficile, e quindi migliorare la loro capacità di ricerca per poter capire e riuscire a rispondere alle nuove sfide, e ovviamente i comunicatori del Nord e del Sud, che hanno ampi spazi per incentivare la cooperazione reciproca.