"Un giorno lì dentro equivale a 100 anni"

MALAGA, Spagna, ott, 2013 (IPS) – “È come una prigione. Un giorno lì dentro equivale a 100 anni”, dice Jennifer, una donna nigeriana di 35 anni, mentre racconta quello che sua zia ha dovuto passare nel Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) di Malaga prima di essere deportata.

Ines Benitez/IPS Ines Benitez/IPS

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Ines Benitez/IPS

Ma forse è anche peggio di una prigione.

Nelle prigioni femminili della Spagna, le guardie e il personale sono tutte donne. Ma nei CIE le donne immigrate “sono prigioniere in carceri sorvegliati da uomini”, riferisce all’IPS Luis Pernía, presidente della piattaforma di solidarietà con i migranti di Malaga.

Il che vuol dire che ci sono le condizioni ottimali per commettere degli abusi.

Il 30 ottobre si terrà la seconda udienza del processo ai cinque poliziotti spagnoli accusati di abusi sessuali nei confronti di alcune detenute del CIE di Malaga avvenuti nel 2006. In quell’anno il CIE si trovava in una ex caserma, che è stata chiusa nel giugno 2012 a causa delle disastrose condizioni delle strutture.

Vicino ai letti delle donne che hanno sporto denuncia per violenza sessuale sono stati trovati alcuni fermacravatte. “Le donne delle pulizie hanno trovato preservativi e bottiglie di alcolici. Alcuni agenti di polizia sono stati ripresi mentre abbracciavano delle detenute a petto nudo”, ha riferito all’IPS José Luis Rodríguez, l’avvocato che si sta occupando del caso.

I casi di presunte violenze sessuali che sono venuti alla luce sette anni dopo, non sono che “la punta dell’iceberg”, afferma Rodríguez, un esperto di immigrazione di Andalucía Acoge (Andalusia dà il benvenuto), una Ong che lavora con i migranti.

Si ha “l’impressione che questi agenti godano di totale impunità, alimentata dalla mancanza di trasparenza, regole e controlli” nei CIE, continua.

Quattro delle sei donne che hanno denunciato gli abusi sono state espulse dal paese nello stesso anno in cui hanno denunciato i fatti. “Cosa sarebbe successo se le vittime degli abusi fossero state donne spagnole?”, chiede Hakima Suodami, una donna marocchina che lavora come mediatore interculturale per la Accem, una organizzazione che fornisce assistenza a migranti e rifugiati.

È una storia ancora “inascoltata” dalla società spagnola, afferma Pernía, che non sembra conoscere le difficoltà che gli immigranti devono affrontare nei centri. La paura fa la sua parte. Una delle donne detenute nel CIE di Malaga, dopo essere stata rilasciata, era troppo spaventata per raccontare all’IPS la sua storia.

Secondo le leggi sull’immigrazione spagnole, i CIE sono “edifici pubblici di carattere non penitenziario … per la detenzione e la custodia degli stranieri soggetti a ordini di deportazione”. Per legge, i migranti possono essere trattenuti nei centri non oltre i 60 giorni.

In Spagna, secondo quanto riferiscono all’IPS alcune fonti governative, ci sono sei centri CIE, con una capacità di 1526 persone. In un documento del 17 ottobre scorso, il ministro degli Interni ha informato il parlamento che nel 2012, 11.325 immigranti sono stati presi in custodia nei centri, “4390 dei quali sono stati rilasciati lo stesso anno”.

Nei CIE, le donne “sono malnutrite e si ammalano” afferma Jennifer, che vive in Spagna insieme al marito spagnolo.

Alle donne immigrate “è negato il diritto fondamentale all’assistenza sanitaria da parte di un’istituzione statale, il che può addirittura condurre alla morte”, riferisce l’attivista Paloma Soria all’IPS. Paloma è l’autrice del rapporto “Le donne nei CIE; le realtà dietro le sbarre”, pubblicato nel 2012 dall’organizzazione non governativa Women’s Link Worldwide.

La morte è ciò che ha trovato Samba Martine, una 34enne congolese, nel CIE di Aluche a Madrid, il 19 dicembre del 2011. Le autorità non avevano la sua documentazione medica, perciò Samba non ha ricevuto la terapia antiretrovirale di cui aveva bisogno, ed è stata portata in ospedale solo il giorno della sua morte.

Lo scandalo che ne è seguito “non è bastato a far attuare provvedimenti volti ad evitare che la tragedia si ripetesse”, si afferma in un comunicato dell’11 ottobre, prodotto dalla “Campagna per la chiusura dei CIE” (CIEsNo), che raggruppa una trentina di associazioni della città meridionale di Valencia.

“In caso di gravidanza, le donne non sono sottoposte a visite regolari, né sono informate del loro diritto ad abortire”, pratica che in Spagna è legale se richiesta entro il terzo mese di gravidanza, afferma Soria, che ha definito “scandalizzante” la negazione di questi diritti.

Nell’agosto 2006, una donna brasiliana con una gravidanza a rischio, che era una delle testimoni degli abusi della polizia scoperti un mese prima nel CIE di Malaga, ha avuto un aborto spontaneo mentre era in attesa di espulsione.

Alcune donne migranti arrivano in Spagna come vittime della tratta di esseri umani. Ma vengono tenute nei CIE ed espulse dal paese senza essere riconosciute come vittime, riferisce all’IPS Silvia Koniecki, presidentessa dell’associazione Andalucía Acoge.

“C’è bisogno di una stretta sorveglianza dei centri da parte di organizzazioni non governative per superare questa situazione di vulnerabilità”, sostiene.

Soudami trattiene a stento l’emozione quando afferma: “le donne migranti subiscono disgrazie sin dall’inizio. Fuggono dalla guerra e dalla povertà”.

“In alcuni casi le famiglie sono state uccise, e loro si ritrovano a percorrere enormi distanze a piedi con i figli sopravvissuti, se ce ne sono. Vengono dalla Nigeria, dalla Sierra Leone … alle volte trascorrono molti anni e restano vittime di diversi abusi prima di riuscire a pagare il viaggio sulle “pateras”, piccoli pescherecci di legno utilizzati dai trafficanti per trasportare i migranti fino in Spagna, per finire poi nei CIE, se sopravvivono al viaggio”.

Soudami vive a Malaga da 15 anni. Il suo lavoro le ha permesso di entrare in contatto con molte donne detenute nei CIE, e si dice “disgustata” dal trattamento che queste ricevono dalle autorità.

Il cibo scarso e di qualità scadente, la mancanza di informazione e la totale disinformazione, oltre all’assenza di interpreti per i migranti che non parlano spagnolo, sono solo alcuni dei problemi documentati nel rapporto della Women’s Link Worlwide.

In molti CIE visitati dai membri dell’organizzazione, alle donne viene concesso meno tempo che agli uomini per uscire in cortile, e i loro spazi comuni sono più piccoli di quelli degli uomini. Nel CIE di Valencia, le donne si devono pulire le camere da sole, mentre per le stanze degli uomini è previsto un servizio di pulizia, spiega Soria.

L’anno scorso, il governo ha approvato un disegno di legge per disciplinare i CIE in modo temporaneo. Ma, secondo Rodríguez, il testo non prevede modifiche “significative”.

I gruppi di difesa dei diritti umani chiedono, ad esempio, che la sovraintendenza dei centri venga affidata alle guardie civili piuttosto che alla polizia.

Nel 2010, una minorenne nigeriana che era stata trattenuta nel CIE di Malaga e che aveva alle spalle un passato di abusi e maltrattamenti prima di arrivare in Spagna, alla fine è stata espulsa dal paese, nonostante molte organizzazioni avessero raccomandato il contrario.

“Le politiche dell’immigrazione prevalgono sui diritti umani” afferma Pernía. “Il livello di disumanità è terribile”.