EDITORIALE: America Latina: la democrazia imperfetta

San José, COSTA RICA, 12 marzo 2012 (IPS) – In America Latina la democrazia ha dovuto combattere ogni sorta di esperimento e fantasia ideologica. Alcune più pericolose di altre per gli ideali di democrazia, giustizia e libertà e per la crescita economica. Oggi, molti paesi latinoamericani hanno smesso di occuparsi della necessità di tutelare lo Stato di diritto e, in particolare, la sicurezza delle persone e dei beni, senza la quale non può esserci competitività, pace e democrazia.

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Fino a pochi anni fa si pensava che lo sviluppo economico e sociale fosse possibile anche in un contesto istituzionale povero. Ma questa teoria ha ceduto sotto il peso schiacciante dell’esperienza. Oggi è universalmente riconosciuto che lo sviluppo è impossibile senza un impegno istituzionale adeguato, che comincia dalla pratica della democrazia. Ciò significa un governo rappresentativo, partecipativo ed eletto democraticamente. Ma anche un governo in cui i poteri dello stato siano indipendenti tra loro e garantiscano un sapiente gioco di pesi e contrappesi: ciò che Montesquieu ha illustrato magistralmente, ma che alcuni politici della regione preferiscono ignorare. Una delle grandi falsità politiche in America Latina è vendere l’idea che in qualunque luogo sia possibile sviluppare una democrazia specifica o un sistema di libertà peculiare. Molto spesso queste giustificazioni non sono altro che commedie per nascondere una vocazione oppressiva o autoritaria.

Le regole della democrazia sono universali e un paese può essere più o meno democratico a seconda di quanto si avvicini o si allontani da questo sistema.

Ma alcuni governi latinoamericani sono convinti che l’appoggio degli elettori rappresenti un nulla osta per modificare queste regole e portare avanti il proprio progetto politico. Se un governante limita le garanzie individuali e la libertà di espressione e riduce ingiustificatamente la libertà di commercio, sovverte le basi della democrazia che gli ha conferito il potere.

Il dilemma, che non siamo ancora riusciti a risolvere, è come combattere le democrazie in cui i governanti si comportano in modo autoritario, pur non essendo dittature.

Poiché, ad onor del vero, in America Latina esiste solo una dittatura: la dittatura cubana. Gli altri regimi, che ci piaccia o no, sono democrazie con un maggiore o minore grado di consolidamento o deterioramento. Pretendere di abbattere questi governi con la forza o violando la Costituzione e le leggi, significa cadere nello stesso vortice autocratico che vogliamo combattere. I popoli devono imparare ad allontanare le illusioni della demagogia e del populismo, perché il problema non sono i falsi Messia, ma le persone che celebrano il loro arrivo.

Uno dei casi più eloquenti del disprezzo per lo Stato di diritto e dell’erosione delle istituzioni democratiche è il Nicaragua. Con la rielezione del presidente Daniel Ortega nel 2006, si è nuovamente assistito alla scomparsa del controllo sul potere pubblico e sono sfumati i limiti di questo potere sull’esercizio delle libertà individuali. Questo declino è stato ancora più evidente nella frode delle elezioni municipali del 2008 e nelle recenti elezioni presidenziali.

All’America Latina non serve disfarsi di leader con deliri di autoritarismo, e semplicemente sostituirli con nuove star del teatro politico. Nonostante i nostri popoli abbiano vinto coraggiosamente le dittature che hanno macchiato con il sangue la seconda metà del ventesimo secolo, c’è ancora molta strada da fare perché la dittatura si consolidi definitivamente in questa regione. Parafrasando Octavio Paz: nella nostra regione la democrazia non deve mettere le ali, ma ha bisogno di mettere le radici.

L’unico modo per togliere il potere a chi lo ha concentrato nelle proprie mani dopo aver avuto il sostegno popolare, è minare questo sostegno con educazione civica, con opportunità e idee. Purtroppo, continuiamo a sbagliare in questo compito. Continuiamo a posticipare all’infinito le grandi riforme politiche, fiscali e dell’istruzione che per anni abbiamo promesso. Nemmeno il colonialismo spagnolo, la mancanza di risorse naturali, l’egemonia degli Stati Uniti né nessun’altra teoria prodotto della eterna vittimizzazione dell’America Latina, spiegano perché ci rifiutiamo di aumentare gli investimenti nell’innovazione, di imporre le tasse ai ricchi, di valorizzare i professionisti dell’ingegneria e delle scienze esatte, di promuovere le competenze, di costruire le infrastrutture che non sono state costruite negli ultimi 200 anni, o di offrire sicurezza giuridica ad imprenditori e investitori.

Con che diritto l’America Latina si lamenta delle disuguaglianze che dividono le sue popolazioni, se la metà dei tributi è costituita da imposte indirette, e il peso fiscale di alcuni paesi raggiunge appena l’11 per cento del PIL? Con che diritto si lamenta della mancanza di posti di lavoro di qualità, se permette che la scolarizzazione media sia intorno agli 8 anni? Con che diritto di lamenta della disuguaglianza e della povertà, se la spesa militare aumenta in media dell’8,5 per cento all’anno dal 2003, raggiungendo la cifra esorbitante di circa 70mila milioni di dollari nel 2010? I nostri leader dovrebbero seguire l’esempio del presidente Obama che, per far fronte alla crisi economica, ha annunciato un taglio alla spesa del Pentagono di 487 miliardi di dollari in dieci anni. Sono consapevole, tuttavia, che gli Stati Uniti devono ancora fare molto per saldare il proprio debito con la pace e la sicurezza internazionale, poiché a tutt’oggi rimane il maggior esportatore mondiale di armi; è giunto il momento di dare priorità ai principi piuttosto che agli interessi di alcune multinazionali nordamericane.

Questi dati sull’America Latina non fanno altro che dimostrare l’amnesia di una regione che alimenta il ritorno ad una corsa agli armamenti, destinata in molti casi a combattere fantasmi e miraggi. Per questo, nel mio ultimo mandato, ho proposto alla comunità internazionale e, in particolare, ai paesi industrializzati, di dare vita al Consenso del Costa Rica, uno strumento per creare meccanismi utili al condono dei debiti e sostenere con risorse finanziarie internazionali i paesi in via di sviluppo che investono sempre di più nell’istruzione, sanità, tutela dell’ambiente e alloggi per la popolazione, e sempre meno in armi e soldati. È giunto il momento che la comunità finanziaria internazionale premi non solo chi spende con disciplina, come ha fatto finora, ma chi spende con etica. © IPS

(*) Oscar Arias Sánchez, ex presidente del Costa Rica 1986-1990/2006-2010 e Premio Nobel per la pace 1987.