EDITORIALE: La crisi della sinistra

ROMA, 17 marzo 2010 (IPS) – La vittoria della destra in Cile mi ha suscitato alcune riflessioni sulla crisi della sinistra. Nel 1992, la sinistra era alla guida di quindici paesi dell’Unione europea, mentre oggi governa solo in cinque; tra questi, il Portogallo e la Spagna sono in gravi difficoltà economiche e sociali, e la Grecia è sull’orlo del collasso.

Roberto Savio, fondatore e presidente onorario dell'agenzia di stampa Inter Press Service. IPS

Roberto Savio, fondatore e presidente onorario dell’agenzia di stampa Inter Press Service.
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È difficile capire una crisi che viene da lontano, per chi ha meno di cinquant’anni. Non sembra esserci una soluzione a breve termine.

Bisogna ricordare che dalla fine della Seconda guerra mondiale e con la creazione delle Nazioni Unite, è cominciato uno straordinario processo di modernità politica basato su principi costituzionali: la giustizia sociale e la partecipazione democratica. L’espansione economica è stata accompagnata da un grande processo di riforme (come quella agraria), sui diritti dei lavoratori, tutela della salute e dell’occupazione.

Sulla scena internazionale, un passo importante è stato l'adozione da parte dell’assemblea generale, negli anni ’70, di una dichiarazione sul Nuovo Ordine Economico Mondiale, in cui si parlava di “giustizia sociale mondiale” e si riconosceva ai Paesi del Terzo mondo il diritto di aumentare la loro partecipazione nell’economia globale, riducendo i privilegi dei paesi industrializzati.

Nei documenti dell’epoca, i valori dello sviluppo umano su un piano globale erano alla base del dibattito politico. Si aprì quindi un vertice tra 22 capi di stato, il dialogo Nord-Sud, con un primo incontro a Parigi e un secondo a Cancún (1980). Intanto, l’Unesco approvava la creazione di un Nuovo Ordine Informativo Mondiale, per riequilibrare i flussi di informazione monopolizzati da alcuni paesi del Nord.

Alla riunione di Cancún partecipò il neopresidente Ronald Reagan, poco interessato alla giustizia internazionale ma molto attratto dal commercio; qui fu coniato il famoso slogan “Commercio, non aiuti” (Trade not aid). Dopo qualche anno nacque l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), al di fuori delle Nazioni Unite, e contro l’Onu fu dichiarata una guerra di delegittimazione come fonte delle decisioni a livello mondiale.

Il Nuovo Ordine Informativo e il Nuovo Ordine Economico furono liquidati; gli Stati Uniti uscirono dall’Unesco (insieme a Inghilterra e Singapore) e si lanciarono nel nuovo ordine monetario ed economico del Consenso di Washington, che impose il pensiero unico neoliberista come fondamento delle relazioni internazionali. Non dimentichiamo la deliberata distruzione del potere sindacale.

Reagan e Margaret Tathcher nel Regno Unito cambiarono il corso della storia. Nello stesso decennio, nel 1989, crolla il Muro di Berlino, e la sua caduta apre il cammino ad una interpretazione senza tentennamenti: i vincitori non avevano sconfitto un nemico, l’Unione Sovietica, ma tutto ciò che andava contro il capitalismo. Il neoliberista Yoshihiro Francis Fukuyama, guru del pensiero neoconservatore, soprattutto in politica estera, disse che quella era la fine della storia, poiché da allora sarebbe esistito solo il capitalismo, in continua crescita e senza controlli nefasti.

Per dare un’idea del clima dell’epoca, in una conferenza a Milano nel 1994, il direttore della OMC Renato Ruggero affermava che le fortezze d’Europa, Asia e Stati Uniti si sarebbero presto integrate in un unico blocco economico, che il mondo non avrebbe visto più guerre, ci sarebbe stata una sola moneta, e che l’enorme ricchezza creata dalla globalizzazione si sarebbe estesa al mondo intero, facendo ciò che la teoria dello sviluppo non avrebbe mai potuto fare.

Il comunismo era morto, adesso si decretava la fine delle ideologie. Il pensiero unico spazzò via ogni opinione diversa nel mondo. Il mercato era il miglior meccanismo regolatore dell’economia, della società e della cultura. E si arrivò perfino a dire dell’istruzione.

Di fronte a questa grande bugia, la sinistra cercò di essere meno stridente e antistorica possibile, mimetizzandosi negli stili e negli immaginari collettivi del momento. In linea generale, si divise in due gruppi: le vedove e le vergini.

Le vedove si collocarono ai margini della politica, eccetto nei paesi ex socialisti. Le vergini cominciarono ad intonare la fine delle ideologie, verso il pragmatismo: “Bisogna essere pragmatici” era il motto degli anni ’90. Dal linguaggio politico uscirono molte parole (codici di comunicazione) che non facilitavano le vergini: giustizia sociale, solidarietà, trasparenza, partecipazione, ridistribuzione, tassazione progressiva, e così via.

Il pragmatismo ha un problema evidente: senza un quadro concettuale nel quale operare, si trasforma in un meccanismo per cui si fa solo ciò che è possibile, e dunque ciò che è utile. E allora non è più pragmatismo ma utilitarismo. La politica si concentra sui problemi amministrativi, senza una visione d’insieme della società e senza una scala di valori. È una sinistra senza identità, che vive in continua polemica con la destra su questioni personali e amministrative.

Parallelamente a questa svolta sul terreno politico, un’altra ancor più determinante si è imposta nel mondo economico. Con l’abolizione di ogni controllo sulle banche, decretato da Clinton nel 1989, e con l’ebbrezza neoliberista dell’amministrazione Bush, che ha inventato strumenti finanziari ad alto rischio senza precedenti, l’economia reale di beni e servizi ha perso ogni vigore di fronte alla finanza, che ha visto invece una crescita moltiplicata per venti rispetto all’economia reale.

La relazione tra politica e economia è cambiata drasticamente. La realtà delle fabbriche, della produzione, non è più il principale punto di riferimento. E di fronte a una finanza totalmente globalizzata e priva di meccanismi di controllo, il mondo dello spazio nazionale, le sue leggi e le sue istituzioni, hanno cominciato a perdere sempre più rilievo e consistenza. Si è ridotto il peso della politica, e il trionfo dei valori della globalizzazione è diventato il centro del dibattito politico.

In questo dibattito, i vecchi termini vengono catturati per una nuova guerra fredda: Barack Obama, per i repubblicani, è un socialista. Per Berlusconi, tutti quelli dell’opposizione sono comunisti.

E la sinistra? La sinistra si ritrova senza vocabolario, senza codici di comunicazione con i quali identificarsi con la gente. Non può parlare di giustizia sociale, di solidarietà, di giustizia o di ridistribuzione senza essere accusata di nostalgia comunista.

In Italia si è registrato lo straordinario fenomeno per cui il Ministero del Lavoro ha cambiato il proprio nome in Ministero del Welfare, ossia del benessere, senza che la sinistra dicesse assolutamente nulla, per non apparire troppo di sinistra.

La lista delle concessioni fatte in ogni paese europeo riempirebbe un libro intero. Di fronte all’eccezionale fenomeno di un giovane di colore eletto presidente degli Stati Uniti con voto popolare di massa, vediamo che è la vecchia squadra economica, responsabile della crisi, a salire al potere insieme a lui. Questo fatto impedisce ogni possibilità di riforma di un sistema finanziario ridotto al collasso e sostenuto dai cittadini americani, che ha già provocato cento milioni di nuovi poveri, e che probabilmente tornerà a crollare ancora più a picco entro breve tempo, se non ci sarà nessuna riforma.

Il Nobel dell’economia Joseph Stiglitz afferma che i vincitori del muro di Berlino sono i perdenti di oggi, con il crollo dell’altro muro, quello di Wall Street (Wall significa muro). Ma come fa un giovane che non ha vissuto tutto il processo, a capire il paradosso di Stiglitz, e a credere che una sinistra senza identità sia il cammino verso una società diversa da quella che esiste oggi? © IPS