DIALOGO CIVILTA’: Nella maggior parte dei conflitti sappiamo cosa bisognerebbe fare

VENEZIA, Dicembre (IPS) – Martti Ahtissari, direttore di Crisis Management Initiative (CMI) è un “mediatore professionista”. Il Kosovo, la contesa provincia meridionale della Serbia, è l’ultima sfida che ha deciso di accettare.

Lo ha fatto come capo della CMI, un’organizzazione non-profit indipendente che lavora per la “sicurezza sostenibile” e “combina analisi e azioni di pressione”. E' stata fondata a Helsinki nel 2000.

A Venezia, Ahtisaari ha partecipato all'incontro sul “ruolo della comunicazione nel dialogo fra le civiltà”, organizzato dall'IPS, dall'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e dalla Provincia di Venezia. Ahtisaari ha parlato con Sanjay Suri dell’IPS.

IPS: Fino a che punto la Troika Ue-Usa-Russia ha fatto progressi in Kosovo?

Martti Ahtisaari: Non sembra che siano riusciti a fare alcun passo avanti. Certo, il segretario generale deve riferire al Consiglio di sicurezza, e poi il Consiglio deve iniziare il dibattito. Ciò che hanno sul tavolo è il dossier che io e i miei colleghi abbiamo presentato a marzo. Vedremo se adesso il rapporto verrà recepito in modo diverso.

Credo che tutti sappiano quale sarà l’esito; questo esercizio di 120 giorni mi è sembrato importante, perché adesso si spera che l’Unione europea sarà unita nella gestione del problema.

IPS: La questione del Kosovo non è forse un microcosmo dei diversi tentativi di superare le differenze politiche all’interno di una nazione?

MA: No, credo sia molto più importante che tipo di leadership governa ogni singolo paese. Se guardiamo al mondo in generale, e guardiamo alla storia passata del mondo, e ai più grandi disastri avvenuti, vediamo che girano sempre intorno a certi individui, e gli altri gli sono andati dietro.

Purtroppo il modo in cui si è comportato Milosevic non può essere ignorato. Credo che nessuno, nemmeno in Serbia – o forse solo poche persone – ma comunque la maggioranza dei serbi riconosca che le cose sono andate piuttosto male. E credo che questo debba essere l’inizio, quando si comincia a cercare delle soluzioni. Perché se pensiamo che si possa cominciare a negoziare lo status del Kosovo senza considerare la storia…

Ci sono delle forze democratiche al potere che hanno battuto Milosevic alle elezioni, e talvolta si comportano come se non ci fosse nessuna storia, e si dovesse ricominciare da un periodo precedente a Milosevic. Ma non funziona così, e non credo che si possa forzare la situazione, altrimenti il 90 per cento della popolazione del Kosovo vorrebbe l’indipendenza, solo dopo ciò che è successo negli anni ’90; non bisogna andare oltre quel limite.

IPS: Ma oggi non ci sono differenze irriconciliabili tra i diversi popoli?

MA: Credo che sia stato fatto molto lavoro da entrambe le parti. L'attuale leadership politica del Kosovo, gli albanesi, è stata in contatto, c'è stata una visita del primo ministro, e un incontro del presidente con le comunità serbe. La Chiesa serba ortodossa ha aperto un dialogo con gli albanesi del Kosovo, e questo ha portato a un atteggiamento diverso in molti posti. Ho (visitato) alcuni monasteri, per esempio, e ne sono stato io stesso testimone.

Ma uno dei problemi è che quando lo status non è chiaro, quando non si sa se un paese diventerà o meno indipendente, questo impedisce il normale dialogo tra i popoli. E per di più, quando i serbi del Kosovo non hanno partecipato alle elezioni, come nelle più recenti, perché Belgrado gli ha ordinato di non farlo, e da soli hanno deciso che questa è la linea che vogliono seguire, allora è molto difficile; se vuoi escluderti dal processo politico, è molto difficile raggiungere una posizione normale, o almeno una situazione più o meno normale, dove si possa perseguire il dialogo.

Ma c’è tantissimo lavoro da fare prima, qualunque sarà lo status, perché credo che la riconciliazione sia un esercizio a lungo termine.

IPS: Quali sono i principi che ha visto funzionare nelle risoluzioni dei conflitti?

MA: Nella mia carriera ho trattato con gruppi che prima o dopo sono stati definiti terroristi. Talvolta più che altro per convenienza politica. Ed è interessante vedere che questi stessi gruppi, quando in alcuni paesi salgono al potere, o condividono il potere con altri, sono poi diventati attori responsabili nelle loro società. Non credo che si possa imparare a diventare 'responsabili' se non si ha il potere.

Ma credo sia irragionevole pensare che qualcuno di questi gruppi comincerebbe un processo politico dichiarando di accettare questo e quello. Questo succederà, ma fa parte di un processo politico, e credo che stiamo perdendo tempo se pensiamo di mettere questi gruppi da parte forzatamente.

IPS: L’IPS ha aperto un dialogo sull’alleanza fra le civiltà. Può essere d’aiuto?

MA: Credo che l’IPS sia un’organizzazione importante per diversi aspetti, prima di tutto perché tutte le sue informazioni si concentrano sui processi, non sulle personalità e gli eventi, come invece tendono a fare i media. Questo è un evento, ma possiamo trarre delle conclusioni anche da questa discussione.

IPS: Assistiamo a diversi conflitti in Turchia, e altrove. Esistono soluzioni definitive?

MA: Ogni conflitto può essere risolto se mettiamo in secondo piano le nostre priorità politiche, e prendiamo tutti gli attori necessari per sostenerci. Nella maggior parte dei conflitti sappiamo molto bene cosa bisogna fare. Stiamo solo esitando. E lì, quando vediamo diverse religioni incontrarsi, quando sentiamo i resoconti dal posto, sono elementi di importanza vitale. È la migliore medicina preventiva che io conosca.

IPS: La guerra può mai essere d’aiuto?

MA: Abbiamo visto che la Seconda guerra mondiale ha messo fine al nazismo che stava distruggendo l’Europa. Talvolta l’intervento militare è necessario per fermare il genocidio. Credo che nel mondo molte cose siano andate male perché non si è intervenuti in tempo. Avremmo potuto salvare molte vite. Sappiamo che in alcune situazioni in Africa la comunità internazionale avrebbe potuto intervenire, ma non l’ha fatto. Ma è anche molto importante che, nel momento in cui si deve usare la forza militare per porre fine a un conflitto, cominci anche il lavoro di riconciliazione.