CULTURA: L’UNESCO difende la diversità culturale

PARIGI, 4 novembre 2005 (IPS) – L’organo culturale delle Nazioni Unite ha recentemente approvato un trattato internazionale per proteggere la diversità, segnando quella che gli esperti chiamano una prima ma importante vittoria morale nella lunga battaglia per preservare la ricchezza culturale del mondo. Dopo più di tre anni di dibattiti, non privi di contrasti, la Conferenza generale dell’UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura), riunita al quartier generale di Parigi, ha approvato con maggioranza schiacciante la Convenzione per la protezione della diversità dei contenuti culturali e delle espressioni artistiche.

Nella votazione, 148 paesi si sono espressi a favore, due – Stati Uniti e Israele – hanno votato contro, e quattro si sono astenuti. Le nuove regole entreranno in vigore tre mesi dopo la ratifica da parte di 30 stati.

Nonostante il trattato venga considerato un trionfo dai paesi europei e in via di sviluppo che lottano per preservare le singole identità culturali dalla dominazione della cosiddetta “industria dello spettacolo”, stile Hollywood, per molti esperti è solo un primo passo.

”L’approvazione di questa convenzione è una vittoria morale, ma il vero test è se i paesi in via di sviluppo resisteranno alla pressione Usa che chiede loro di affidare i servizi audiovisivi e di informazione ai trattati commerciali”, ha detto all’IPS Sasha Costanza-Chock, esperto di media per la Coalizione dei Diritti di comunicazione nella società dell’informazione (CRIS).

Secondo Costanza-Chock, che ha seguito questi dibattiti all’UNESCO sin dalla fine del 2003, quando sono stati avviati, il governo Usa ha irretito i paesi in via di sviluppo facendo loro firmare accordi commerciali bilaterali nei quali rinunciano al diritto di conservare e sostenere i loro stessi servizi audiovisivi e di informazione, che comprendono cinema, televisione e musica.

Durante le discussioni, la delegazione Usa all’UNESCO ha dichiarato che, essendo i beni culturali oggetto di commercio internazionale, l’agenzia Onu non ha l’autorità per stabilire regole vincolanti globali al riguardo.

Il governo Usa è rimasto contrario alla convenzione fino alla fine dei dibattiti all’UNESCO sulla diversità culturale.

”In realtà, questa convenzione riguarda il commercio… è evidentemente aldilà del mandato UNESCO”, ha dichiarato durante uno dei dibattiti Richard Martin, co-responsabile della delegazione Usa, giudicando il testo della convenzione “profondamente errato e sostanzialmente incompatibile con l’impegno (dell’agenzia) a promuovere la libera circolazione di idee utilizzando parole e immagini”.

Alcuni osservatori hanno dichiarato che le riflessioni di Martin dimostrano che gli Stati Uniti considerano i beni culturali mera mercanzia – visione del tutto opposta, secondo loro, a quella condivisa da quasi tutto il resto del mondo.

Martin ha aggiunto che la convenzione “potrebbe indebolire diritti e doveri sanciti da altri accordi internazionali e incidere negativamente sulle prospettive di successo del Doha Round”.

L’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) sta lottando per raggiungere il consenso sui negoziati globali, che prendono il nome dalla capitale del Qatar dove sono stati avviati nel 2001. I ministri del commercio di tutto il mondo si incontreranno a Hong Kong a dicembre per quello che è da tutti considerato lo sforzo finale per salvare il Doha Round.

Nonostante la forte opposizione Usa, la convenzione in favore della diversità culturale ha conquistato un sostegno massiccio, anche da parte di quegli stati che precedentemente, nelle discussioni UNESCO, sembravano al fianco degli Stati Uniti. Paesi come Giappone, India, Brasile e Messico – molto forti nell’esportazione di film, musica, radio, libri, programmi televisivi e altri beni culturali nazionali – hanno approvato il nucleo centrale della convenzione, secondo cui questi diversi beni prodotti nel mondo non sono semplicemente merce, ma espressione delle ricche specificità individuali e identità culturali. Proprio per questa ragione, hanno dichiarato, i beni culturali meritano di essere preservati e sostenuti, anche finanziariamente, dagli stati.

Nel suo primo articolo, il trattato riafferma il diritto sovrano degli stati di elaborare politiche culturali “per proteggere e promuovere la diversità delle espressioni culturali” e “creare le condizioni perché le culture fioriscano e interagiscano liberamente in maniera reciprocamente vantaggiosa”.

Nel suo Principio guida, la convenzione garantisce che tutte le misure finalizzate alla protezione e promozione della diversità delle espressioni culturali non impediscano il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, “come la libertà di espressione, informazione e comunicazione, e la capacità degli individui di scegliere…”.

Nel suo Principio di apertura e imparzialità, la convenzione assicura inoltre che quando gli stati adottano misure in favore della diversità culturale, “devono cercare di promuovere, in maniera adeguata, l’apertura verso altre culture del mondo”.

Malgrado queste dichiarazioni di principio, molti esperti considerano la convenzione solo il primo passo di una lunga lotta per garantire la sopravvivenza delle eredità culturali del mondo.

David Kessler, già consulente per le politiche culturali dell’ex primo ministro francese Lionel Jospin, ha salutato la convenzione come un “progresso importante” nella valorizzazione dei beni culturali di fronte alle regole internazionali.

Tuttavia, ha dichiarato, “la convenzione non può decidere in merito alla futura difficoltà reale, ovvero, come questo nuovo strumento giuridico verrà trattato nelle discussioni dell’Organizzazione mondiale del commercio”. ”Sarà considerato un’eccezione nella struttura dell’OMC”, ha proseguito Kessler, “oppure la gente dirà, ‘È stato firmato all’UNESCO, ma non riguarda il nostro lavoro’. Questo sarà il nucleo delle battaglie a venire.”

Allo stesso tempo, secondo l’esperto, la convenzione sarà uno strumento utile per quegli stati che cercano di resistere alle pressioni per firmare accordi commerciali bilaterali. “Domani, le autorità nazionali in tutto il mondo potranno dire: ‘Questa convenzione è uno strumento che riconosce il nostro diritto a preservare la nostra cultura, e ci permetterà di affermare che i nostri beni culturali non possono essere trattati come altri settori commerciali”.

Alcuni esperti hanno poi evidenziato quelli che considerano ulteriori pregi del trattato.

Da una parte, la convenzione, se ratificata da 30 stati, avrà lo stesso valore legale di tutti gli altri sistemi internazionali di regole. “Questa disposizione, se usata adeguatamente, può indebolire il potere dell’OMC relativo all’accordo generale sui servizi”, sostiene Mohamed Lotfi M’rini, professore di commercio internazionale all’Università di Laval, in Canada.

Tuttavia, secondo M’rini, ciò non sarebbe applicabile a diritti e doveri cui si sono impegnati gli stati con trattati commerciali bilaterali o multilaterali, come gli accordi di libero scambio nordamericano e centroamericano (NAFTA e CAFTA), nei quali gli Stati Uniti hanno un ruolo centrale.

M’rini ha poi denunciato altre gravi lacune della convenzione: ad esempio, il suo meccanismo di contestazione non ha una reale legittimazione giuridica. Inoltre, la cosiddetta clausola indiana, aggiunta nell’ultima fase dei dibattiti dal governo indiano, consente ai paesi che non hanno ratificato la convenzione di ignorarne la validità.

Ciò significa che, nonostante l’esistenza della convenzione in favore della differenza culturale, l’impianto legale dell’OMC rimarrà la sola struttura valida per la risoluzione delle dispute commerciali relative ai beni culturali.

È una realtà che sicuramente metterà alla prova la forza di convinzione degli stati che hanno approvato il trattato a Parigi.