LAVORO-ARGENTINA: Dopo la tragedia, iniziative contro lo sfruttamento sul lavoro

Buenos Aires, 15 Aprile 2005 (IPS) – Negli ultimi anni sono arrivate ai tribunali e al governo di Buenos Aires diverse denunce contro le aziende della capitale che sfruttano la manodopera. Ma solo dopo che sei immigrati irregolari, tra cui quattro bambini, sono morti tra le fiamme, le autorità hanno annunciato delle misure per smantellare la rete di fabbriche tessili clandestine che praticano forme di schiavitù sul lavoro.

Sei immigrati boliviani – due donne, due bambini di 3 anni, uno di 10 e uno di 15 anni – sono rimasti uccisi in un incendio scoppiato di recente in una di queste imprese, in un quartiere residenziale della capitale.

In Argentina emergono periodicamente casi che rivelano la presenza di una vasta rete di fabbriche di calzature e tessili clandestine i cui dipendenti lavorano in condizioni di schiavitù.

Nel 2005, alcuni boliviani sono riusciti a fuggire dalla fabbrica dove erano stati rinchiusi e costretti a lavorare 18 ore al giorno, e hanno sporto denuncia all’ufficio del difensore civico della città di Buenos Aires, che ha aperto un processo contro il proprietario dello stabilimento.

Sarebbero circa 400 le aziende clandestine che sfruttano la manodopera nella capitale, secondo i dati dell’associazione dei fabbricanti tessili.

I proprietari delle fabbriche corromperebbero gli ispettori e la polizia, ha dichiarato Gustavo Vera, presidente della cooperativa Alameda, a Bajo Flores, un quartiere operaio nella parte occidentale di Buenos Aires, dove il 60 per cento dei residenti più poveri viene dalla Bolivia.

Vera ha raccontato che quando i lavoratori riescono a fuggire dalla loro condizione di sfruttamento e vanno a sporgere denuncia alla polizia, spesso vengono respinti perché sono immigrati clandestini.

Grazie alle testimonianze e alle informazioni dei cittadini boliviani che si sono ribellati, l’ufficio del difensore civico ha potuto stilare un rapporto sulle fabbriche che sfruttano i lavoratori, dal quale emerge che si tratta di almeno 120 imprese, con circa 120.000 persone “impiegate” in condizioni di schiavitù.

La maggior parte dei lavoratori delle fabbriche clandestine vengono dalla Bolivia, ma ci sono anche immigrati dal Paraguay e dal Perù, e argentini, ha segnalato all’IPS il difensore civico comunale, Alicia Pierini.

Alvaro González Quint, console boliviano a Buenos Aires, ha raccontato di un incontro avuto dopo il tragico incendio avvenuto in una delle fabbriche, con il garante Eduardo Mondito, per sollecitare l’adozione in tempi rapidi di misure volte a smantellare la rete di società clandestine dove i lavoratori vengono rinchiusi e sfruttati.

“Come è possibile che una fabbrica autorizzata possa operare in simili condizioni in una zona residenziale?”, ha chiesto visibilmente scosso González Quint, intervistato accanto all’edificio in cui è divampato l’incendio e dove le vittime sono rimaste intrappolate sotto il tetto crollatogli addosso.

Secondo Pierini, lo studio del difensore civico del comune ha comprovato l’esistenza di un’economia sotterranea, dove gli immigrati sono costretti a lavorare in condizioni di schiavitù.

Nel caso dell’incendio scoppiato nel quartiere Caballito di Buenos Aires, i lavoratori erano boliviani reclutati nel loro paese con la promessa di un salario decente e di vitto e alloggio, e poi portati nella capitale, da soli o con le loro famiglie.

Una volta arrivati, si sono ritrovati a dover lavorare dalle 12 alle 18 ore al giorno e a vivere in condizioni miserabili, senza neanche il permesso di uscire dalla fabbrica.

Secondo Pierini, c’è stata una “mancanza di volontà politica” per combattere il problema, che è presente in molti quartieri di Buenos Aires.

Gli stipendi sono bassissimi, e spesso i proprietari delle fabbriche non pagano nemmeno, ha segnalato all’IPS José Oreliana, uno dei boliviani fuggito con la moglie e tre figli.

Lui e i compagni di lavoro con le loro famiglie vivevano in camere sovraffollate con i cavi elettrici scoperti e con un solo bagno per 20 persone. Avevano un giorno libero a settimana, ma non potevano lasciare la fabbrica. Il boss organizzava addirittura delle “feste” nei week-end, offrendo vino a volontà perché gli operai dimenticassero i loro problemi e non chiedessero di uscire.

Dopo l’azione legale mossa dall’ufficio del difensore civico, il capo di Oreliana – anch’egli boliviano – è stato arrestato nell’ottobre del 2005 per essere rilasciato dopo appena due settimane, quando il giudice ha stabilito che mancavano gli elementi per procedere. Poi però il giudice è stato dichiarato non competente, ma il caso non è stato ancora assegnato a un altro magistrato.

Malgrado il nulla di fatto da parte delle autorità, i funzionari comunali hanno reagito con sorpresa e indignazione alla tragedia dell’incendio, che imputano a una vera e propria “mafia” della schiavitù sul lavoro, e hanno sollecitato gli abitanti del quartiere a denunciare le fabbriche clandestine.

Jorge Telerman, sindaco di Buenos Aires, ha ammesso che questa impresa, i cui proprietari sono argentini, aveva ottenuto la licenza comunale nel 2001 come fabbrica di ricami.

Ma i lavoratori erano “soggetti a condizioni di schiavitù”, ha detto, annunciando che è stata messa a disposizione una “linea diretta” gratuita per le denunce dei cittadini contro le fabbriche che sfruttano la manodopera nel loro quartiere.

Telerman è stato nominato sindaco il 13 marzo, dopo l’incriminazione del suo predecessore Anibal Ibarra, rimosso dalla carica con l’accusa che la debole normativa del governo sulla sicurezza avesse contribuito al tragico incendio che era avvenuto in un nightclub nel dicembre 2004, provocando la morte di 194 persone.

Dopo l’incendio di Caballito, Enrique Rodríguez, il nuovo assessore comunale alla produzione ha licenziato Florencio Varala, responsabile della sicurezza sul lavoro, nominato appena due giorni prima, e ha aperto un’indagine su presunte tangenti pagate alla polizia.

Rodríguez ha riferito che spesso i bambini vivono con le madri che lavorano nello stabilimento. “Non si tratta solo di lavoro nero (in cui gli impiegati non hanno copertura previdenziale né altri diritti o benefici), ma di vera e propria schiavitù sul lavoro”, ha aggiunto.

Ha poi ammesso delle lacune nei controlli e negli ordinamenti della città, assicurando che avrebbe immediatamente cominciato a parlare con i rappresentanti della comunità locale, per avviare delle indagini.

Ma le informazioni sulla situazione della fabbrica erano già nelle mani degli uffici competenti già prima dell’incendio.

Sia gli abitanti del quartiere sia i lavoratori della fabbrica hanno detto di aver assistito a frequenti visite della polizia che pretendeva il pagamento di tangenti, minacciando di denunciare il proprietario per l’impiego di immigrati irregolari. Secondo alcuni, anche gli ispettori venivano corrotti.

Vera ha raccontato all’emittente radiofonica Mitre che il fenomeno della schiavitù sul lavoro risale almeno al 2003.

Ha spiegato che i lavoratori vengono attratti da annunci economici pubblicati sui giornali boliviani, e che alcune imprese di trasporto sono pagate per condurre clandestinamente gli immigrati in Argentina come “turisti”.

Le fabbriche che sfruttano i lavoratori, che dall’esterno sembrano abitazioni private, lavorano per grandi imprese tessili, e spesso producono indumenti per case di alta moda.

Mentre alcuni abiti vengono venduti a più di 200 dollari, gli immigrati sono pagati l’equivalente di appena 50 centesimi di dollaro, ha osservato Vera.

Ha poi aggiunto che nello stabilimento in cui è scoppiato l’incendio lavoravano 25 boliviani con le loro famiglie, e la fabbrica produceva jeans per 80 centesimi argentini (30 centesimi di dollaro) al pezzo.

L’attivista ha fatto notare che la cooperativa aveva già fornito all’ufficio del difensore civico informazioni dettagliate su tutte le fabbriche irregolari, compresa l’ubicazione e il numero di macchine di ogni opificio, e le vie di fuga in caso di blitz della polizia.

Ciò significa che “il governo sapeva”, ha sottolineato, aggiungendo che solo l’ufficio del difensore civico ha fatto qualcosa al riguardo.

Anibal Fernández, ministro degli Interni argentino, ha immediatamente ordinato al capo della polizia federale di intraprendere un’azione contro la questura del quartiere nel quale sembra che la fabbrica operasse corrompendo le forze di polizia.

Gli abitanti della zona hanno lamentato di essere stati spinti a denunciare una situazione che in realtà tutti già conoscevano. “Ci sono altre due fabbriche irregolari nello stesso isolato, e una terza dietro l’angolo”, ha raccontato ai giornalisti della televisione un abitante del quartiere.