INDIA: Una condanna riaccende la lotta contro la pena di morte

New Delhi, 11 maggio 2010 (IPS) – Mohammed Ajmal Kasab, cittadino pakistano di 22 anni, è stato condannato all’impiccagione per le responsabilità avute nell’attacco terroristico del 2008 contro la città portuale di Mumbai, nel quale rimasero uccise 166 persone. Una condanna interpretata come un passo indietro nella lotta all’abolizione della pena di morte in India.

“È un passo indietro nel senso che si sono sollevate poche voci a favore della sua assoluzione” ha detto all’IPS Colin Gonsalves, avvocato per i diritti umani e attivista nella lotta contro la pena di morte. “Nonostante questo, sono ottimista: credo che l’opinione pubblica del paese tornerà a sostenere l’abolizione”.

L’India faceva parte dei 54 paesi dell’Onu che nel dicembre 2007 votarono contro la moratoria sulle esecuzioni dell’Assemblea generale dell’Onu, passata con 104 voti a favore e 29 astensioni. Nel 1983, la Corte Suprema indiana stabilì che la pena di morte poteva essere applicata esclusivamente “nei casi più estremi”.

Mentre le sentenze di morte sono state via via ridotte, l’impiccagione, unica modalità di esecuzione accettata nel paese, viene adottata raramente per diverse ragioni, tra cui il fatto che molte volte i ricorsi vengono accettati dalla Corte Suprema. L’ultima impiccagione avvenuta in India risale al 2004.

Il caso di Kasab, secondo alcuni attivisti ed esperti legali, va oltre la categoria dei “casi più estremi”. La sua condanna è stata semplice perché era stato ripreso da una telecamera mentre insieme a un complice, Abu Dera Ismail Khan, sparava indiscriminatamente contro i viaggiatori nella stazione principale di Mumbai, il 9 novembre 2008.

È emerso che Kasab era l’unico sopravvissuto di una squadra di 10 cecchini armati, salpati verso Mumbai dal porto di Karachi, in Pakistan, e che in India si erano separati per attaccare diversi obiettivi strategici. Erano riusciti a colpire due alberghi di lusso e un centro ebraico, e a tenere testa per due giorni a due commando militari prima di rimanere uccisi.

In una registrazione della sua confessione, Kasab ammette di aver partecipato, insieme ad altri membri della sua squadra, ad alcune esercitazioni militari guidate dai Lashkar-e-Toiba, un gruppo jihadista chiamato “Soldati di Dio” e coinvolto in diversi attacchi terroristici portati a termine in India in passato.

Le prove schiaccianti contro Kasab, insieme all’opinione pubblica influenzata dalle notizie riportate quotidianamente dai media sugli attacchi a Mumbai, erano tali che la sua condanna a morte sembrava una conclusione inevitabile alla fine del processo, tenutosi in un tribunale accessibile ai media.

La sentenza contro Kasab dovrà essere ratificata da una corte suprema, ma lui avrà il diritto di fare ricorso appellandosi alla Corte Suprema indiana. Se il ricorso dovesse fallire, a Kasab non resterà che chiedere la grazia al presidente. L’intero processo potrebbe richiedere anni, stando alle esperienze passate.

Per esempio, la People’s Union of Civil Liberties, una influente associazione per i diritti umani di New Delhi, ha presentato ricorso contro i tempi troppo rapidi con cui le sentenze di condanna vengono eseguite.

Dalla sentenza di Kasab del 6 maggio scorso, i canali TV indiani hanno cominciato a mandare in onda una serie di dibattiti e talk show sul suo caso e in generale sul problema della pena di morte in India.

Madhu Kishwar, una nota attivista per i diritti umani indiano, ha dichiarato durante un dibattito televisivo che quello di Kasab era un caso semplice da risolvere e che condannarlo all’ergastolo sarebbe stato un grave rischio per il paese, incoraggiando i tentativi di liberarlo attraverso dirottamenti aerei o rapimenti.

La paura di Kishwar non è ingiustificata: nel dicembre 1999, un gruppo di cinque pakistani che dichiaravano di appartenere al gruppo islamico Harkat ul Mujahideen dirottarono un aereo di linea carico di passeggeri che viaggiavano da Kathmandu a Kandahar, in Afghanistan, quindi verso un’area controllata dai talebani.

Dopo sette giorni di negoziati, i passeggeri vennero scambiati con tre pakistani rinchiusi nelle prigioni indiane con accuse di terrorismo. In seguito uno di loro, Ahmed Omar Saeed Sheikh, di origini britanniche, è stato arrestato e condannato in Pakistan per l’assassinio nel 2002 del corrispondente americano del Wall Street Journal Daniel Pearl. La sentenza contro Sheikh non è ancora stata eseguita.

Il tentativo di prendere d’assalto il parlamento indiano, il dirottamento dell’aereo della compagnia di bandiera e gli attacchi terroristici a Mumbai hanno provocato un raffreddamento delle relazioni tra India e Pakistan, che in alcuni casi hanno anche sfiorato lo scontro diretto. Questi elementi fanno pensare che l’opinione pubblica sia poco incline al rinvio o a commutare la pena di morte di Kasab.

Ma gli attivisti per i diritti umani e le persone favorevoli all’abolizione della pena di morte su entrambi i fronti continuano a far sentire la loro voce contro l’impiccagione di Kasab.

“Due neri non fanno un bianco”, ha detto l’attivista pakistana Tehmina Abdullah durante la sua apparizione in un programma TV indiano, “I paesi civilizzati non eseguono condanne a morte”.

Maja Daruwala, che guida la Commonwealth Human Rights Initiative, ha detto all’IPS di essere contraria alla pena di morte nel caso di un giovane come Kasab, perché “distrugge ogni possibilità”.

L’avvocato per i diritti umani Gonsalves esprime sentimenti analoghi, sostenendo che Kasab avrebbe potuto ricevere una condanna all’ergastolo, “una opportunità per cambiare, e magari diventare una simbolo di moderazione, parlando dal carcere ai giovani contro la scelta della jihad”.

Alla fine, ciò che potrebbe salvare Kasab dal patibolo è che è l’unico jihadista ad essere stato catturato vivo in India ed essere ufficialmente riconosciuto dal Pakistan come cittadino di quel paese.

“Kasab è l’unica prova vivente che abbiamo per fare pressioni sul Pakistan perché chiuda i campi di addestramento dei terroristi, che secondo l’India sono tollerati per operare dal territorio pakistano”, ha spiegato il professore Kamal Mitra Chenoy, docente di studi internazionali all’Università di Jawaharlal Nehru e attivista per i diritti umani. © IPS