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SUDAN: L’accordo di pace in Darfur alimenta nuove violenze

Washington, 13 luglio 2006 (IPS) – Tre mesi dopo la firma dell’Accordo di pace del Darfur (DPA), sotto l’egida dell’Onu, caos e violenza sono tornati ad affliggere la regione più occidentale del Sudan, secondo quanto riferiscono i gruppi di aiuto e gli esperti del posto.

Invece di pacificare la regione, l’accordo del 5 maggio scorso tra il governo sudanese e una fazione ribelle ha frammentato le diverse fazioni africane ribelli, che adesso sono in guerra tra loro.

“Era questo l’obiettivo (del governo) di Karthoum: alimentare il conflitto tra le diverse comunità di ribelli, a tal punto da creare il caos”, secondo John Prendergast, esperto sudanese presso il Gruppo di crisi internazionale (ICG).

“È (la tattica) dividi e distruggi. Khartoum ha usato il DPA come ultima risorsa per portare avanti la sua strategia”, ha osservato, spiegando che il governo avrebbe fornito sostegno logistico alla fazione dell’esercito di liberazione del Sudan (SLA), che ha firmato l’accordo, ma anche alle milizie arabe “janjaweed”, usate da Khartoum per la sua campagna “scorched earth”, di fare terra bruciata intorno al nemico, nella quale si stima siano morte, dal 2003, ben 400.000 persone, soprattutto abitanti del Darfur.

Il DPA, salutato da Washington e dall’Unione africana come un passo avanti fondamentale, ha anche alimentato le tensioni tra gli oltre due milioni di persone sfollate in seguito alle violenze degli ultimi tre anni, di cui la maggior parte vive adesso in vasti campi sovraffollati.

Per questo è diventato sempre più difficile portare avanti il lavoro delle agenzie e del personale umanitari. Otto operatori sono rimasti uccisi nel corso di violenti scontri in Darfur nel mese di luglio, che ha così registrato il record di attacchi subiti dalle agenzie e dagli operatori umanitari.

“Il livello di violenza cui devono far fronte gli operatori umanitari in Darfur è senza precedenti”, ha affermato Manuel da Silva, coordinatore umanitario e vice rappresentante speciale per il Darfur del Segretario generale dell’Onu Kofi Annan. Nelle ultime due settimane di luglio, in Darfur, sono rimasti uccisi più operatori che nei due anni precedenti.

“Sin dalla firma (del DPA), in Darfur ci sono state sempre più tensioni e violenze, che hanno portato alla morte di sin troppi civili e operatori umanitari”, ha osservato Paul Smith-Lomas, direttore regionale di Oxfam, una delle tante organizzazioni umanitarie il cui personale è rimasto ucciso nelle ultime settimane. “Bisogna attuare immediatamente un totale cessate il fuoco”.

In una dichiarazione congiunta di questa settimana, Oxfam e altre tre importanti agenzie di aiuti internazionali attive in Darfur – CARE, International Rescue Committee, e World Vision – hanno riferito che 25.000 persone sarebbero fuggite dalle loro case nel Darfur del nord il mese scorso a cause dei combattimenti, e che le violenze starebbero compromettendo la capacità delle principali operazioni umanitarie mondiali di rifornire beni e servizi essenziali a circa 3,5 milioni di persone in tutta la regione, che dipendono dagli aiuti.

Le Nazioni Unite hanno stimato a luglio che i livelli di accesso umanitario in Darfur sarebbero peggiorati rispetto al 2004, e che addirittura il 40 per cento della popolazione bisognosa non avrebbe ricevuto un’assistenza adeguata.

Nella loro dichiarazione, i gruppi di aiuti affermano che le forze dell’Unione africana (AMIS), composte da circa 7.000 persone, responsabili di garantire la sicurezza degli sfollati, sembra abbiano ridotto la loro attività dopo la firma del DPA.

In un rapporto della scorsa settimana, Annan, che si è ripetutamente appellato al sostegno dell’AMIS, ha dichiarato che la forza di peacekeeping dell’Onu che dovrebbe subentrare all’AMIS da gennaio, avrà bisogno di 18.600 truppe per garantire che tutte le parti in Darfur adempiano al DPA.

Ma ci sono sempre più dubbi che una simile forza potrà di fatto costituirsi, sia per i continui rifiuti di importanti fazioni ribelli di firmare l’accordo, sia perché la stessa Khartoum ha sempre respinto gli appelli per consentire il dispiegamento di questa forza dell’Onu.

Nonostante le forti pressioni dell’UA, dell’amministrazione Usa di George W. Bush, e di alcuni alleati occidentali, solo uno dei leader ribelli ha firmato il DPA, Minni Minnawi di SPA.

Altre fazioni, tra cui i dissidenti di SPA, insieme ai leader del Movimento di giustizia e uguaglianza (JEM), hanno rifiutato l’accordo, sostenendo che non sarebbe riuscito a dare adeguate garanzie per il rientro sicuro degli sfollati, il giusto risarcimento per le loro perdite, e il disarmo dei Janjaweed.

Dopo la firma dell’accordo, il movimento dei ribelli si è di fatto smembrato, generando nuove alleanze che sono adesso in guerra tra loro, adottando in alcuni casi strategie della terra bruciata analoghe a quelle praticate dalle famigerate milizie janjaweed, che sono ancora attive nella regione, nonostante le richieste del governo di disarmarle.

Al tempo stesso, Khartoum ha sempre più ribadito il proprio rifiuto delle forze Onu. Il mese scorso, ad esempio, il presidente Omer al-Bashir ha avvertito che in caso di dispiegamento delle forze Onu, il Darfur diventerebbe il loro “cimitero”.

Quasi tutti gli esperti indipendenti presenti nella regione ritengono che questi ostacoli potrebbero ancora essere superati, a condizione che la comunità internazionale e in particolare gli Stati Uniti, il cui governo ha accusato Khartoum di “genocidio” contro la popolazione africana, accettino di includere nell’attuazione del DPA alcune delle richieste dei ribelli, e di esercitare forti pressioni su Khartoum perché vada avanti.

“La strada verso una forza multinazionale di mantenimento della pace in Darfur è stata illustrata nei dettagli da Kofi Annan”, ha detto Ann-Louise Colgan, direttrice di Africa Action, un gruppo di lobby della società civile presente nel paese. “Adesso gli Usa devono adottare nuove misure per sfidare l’ostruzionismo di Khartoum, e dovrebbero stimolare nuove azioni rispetto a questa crisi”.

Ma anche la volontà di Washington di rispondere a queste sollecitazioni è in dubbio, soprattutto vista la priorità data dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu alla guerra tra Israele e gli Hezbollah in Libano, oltre alle dimissioni dall’amministrazione Bush di due alti funzionari Usa – l’ex vice Segretario di Stato Robert Zoellick e il principale speechwriter del presidente, Mark Gerson – che erano tra i principali responsabili del Darfur.

“È rimasto un enorme vuoto (nell’amministrazione) adesso”, secondo Prendergast, il quale, insieme a diversi gruppi di aiuti e ad alcuni legislatori democratici e repubblicani, è favorevole alla nomina di un inviato speciale responsabile esclusivamente del Darfur. “Sono certo che il presidente vorrebbe fare di più, ma se non riceve l’input da altre figure di spicco che dicano ‘dobbiamo fare questo, piuttosto che quello’, non succederà nulla”.

Bush ha in effetti dimostrato un profondo interesse per il Darfur, al punto di aver telefonato personalmente ad al-Bashir – un leader che avrebbe normalmente ignorato – per chiedergli di mandare il suo vicepresidente per la firma del DPA all’inizio di maggio.

Il fatto che anche al-Bashir dia ascolto a Bush è emerso chiaramente con la sua nomina di Minnawi come assistente speciale per il Darfur – una misura richiesta dal DPA ma che il leader sudanese stava rimandando da circa tre mesi -, 10 giorni dopo che Minnawi è stato ricevuto da Bush alla Casa Bianca, il 25 luglio.

Il punto, secondo molti analisti, è la volontà di Washington non solo di impegnarsi nuovamente ad alto livello con un inviato speciale, ma anche, d’accordo con i suoi alleati occidentali e africani, di esercitare forti pressioni su Khartoum.

“Per quanto riguarda Khartoum, se possono resistere e sopravvivere alle seccature di inconcludenti diplomatici, perché dovrebbero cambiare la propria posizione (sul dispiegamento dell’Onu)?”, ha commentato Prendergast.

“Hanno una situazione perfetta al momento. Minnawi, che è stato ricevuto alla Casa Bianca, combatte adesso gli altri gruppi ribelli per conto del governo. Sono passati tre anni, l’amministrazione lo chiama ‘genocidio’, eppure non è stata ancora imposta nessuna misura punitiva”, ha osservato.