SVILUPPO-URUGUAY: Un quartiere nato dal nulla

MONTEVIDEO, 9 marzo 2005 (IPS) – Non c’erano ombre a “El Monarca”, quando arrivò Angel Martínez “El Viejo” (il Vecchio), ma solo arbusti secchi e un sole cocente. Ben presto però cominciarono a nascere alberi e case, come fiori innaffiati dal sudore.

Tutto ebbe inizio un Venerdì santo del 1995, ricordano i vicini. Un gruppo di quattro o cinque famiglie senza casa decisero di occupare quella terra alla periferia di Montevideo. Il fondo apparteneva a un latifondista poi deceduto, e i suoi discendenti lo avevano abbandonato tra i grovigli della burocrazia, quando decisero di trasferirsi in Spagna.

I nuovi occupanti recisero il filo spinato in un atto quasi rituale e misero in pratica ciò che da settimane progettavano. Con un filo di lana, suddivisero il terreno in lotti di 12 metri per 30 per ogni famiglia e si installarono con quel poco che ancora possedevano: baracche, lamiere, sacchi di plastica. Era nato l’insediamento “El Monarca”.

“All’inizio sembrava un cimitero”, ricorda El Viejo, con lo sguardo rivolto alla terra in cui pensa di passare il resto della sua vita, anche se non ne sarà mai proprietario.

La notizia del nuovo insediamento è giunta immediatamente a molte persone senza casa di Montevideo, che si sono unite alla disperata impresa. Famiglie sloggiate, uomini soli disoccupati, lavoratori agricoli in cerca di fortuna in città cominciarono a stabilirsi in quell’area.

Le famiglie fondatrici capirono che bisognava organizzarsi. Crearono un comitato di quartiere, compilarono una lista dei residenti, stabilirono il pagamento di una “quota sociale” per ogni famiglia e collocarono delle bandiere rosse nei lotti ancora vuoti, per evitare che qualcuno ne occupasse più d’uno.

Con il denaro delle quote, le donazioni di materiali e il lavoro solidale della comunità furono costruite strade, case e una piccola sala comunale con un’insegna: “I bisogni dei poveri si soddisfano con la partecipazione, l’azione e la determinazione”.

Alle baracche di lamiere cominciarono a sostituirsi le case di mattoni. Ogni residente contribuiva come poteva, con ore di lavoro, procurando la sabbia, o gli attrezzi, e insieme cominciarono a costruire la nuova comunità, senza l’aiuto di nessuna organizzazione non governativa.

Qualcuno, come Marta Casanova, conserva ancora, dietro alla nuova casa, i resti delle prime, precarie, costruzioni di El Monarca. “Il fatto è che è stata la prima casa davvero mia”, ha spiegato all’IPS.

Nel frattempo, per le terre è stata indetta un’asta giudiziaria e, in assenza di compratori, sono rimaste nelle mani del Ministero per gli alloggi. Il comitato di El Monarca sta ancora negoziando perché gliene sia concessa la proprietà.

I residenti hanno chiesto e ottenuto l’allaccio di elettricità, acqua potabile e linee telefoniche. Sia la manodopera che i fondi per ciascun incarico sono venuti solo dagli sforzi della stessa comunità.

Adesso gli obiettivi sono costruire una casa di cura, risolvere il problema della raccolta rifiuti e ottenere che una linea del trasporto pubblico arrivi all’insediamento. I bambini devono camminare sul bordo della strada per arrivare alla scuola più vicina.

El Monarca è un esempio di nuovo insediamento autogestito. Nel quartiere vivono oggi 2500 persone distribuite in 272 lotti. Il 40 per cento degli abitanti è disoccupato o ha un lavoro precario.

“Non è facile ottenere l’impegno degli abitanti, quando ciascuno deve pensare a come dar da mangiare alla propria famiglia. Eppure, praticamente tutti danno il proprio contributo per la comunità”, ha detto all’IPS El Viejo, oggi presidente del comitato.

Costruire un quartiere dal nulla è una sfida quotidiana, spiega questo agricoltore, che ha piantato il suo “Giardino della dignità” in prossimità del fiume che segna i confini del quartiere con la città di Montevideo.

In Uruguay, il numero degli insediamenti sta crescendo del 10 per cento in media ogni anno, secondo uno studio dell’organizzazione Servicio Paz y Justicia (Serpaj), contenuto nel suo rapporto sui diritti umani 2004.

Ciò comporta, tra le altre cose, il crescente spopolamento delle zone centrali della città, e la simultanea espansione periferica e metropolitana.

Tra il 1985 e il 1996, gli anni degli ultimi due censimenti nazionali, 62 quartieri più centrali di Montevideo hanno perso più del 10 per cento dei loro abitanti, mentre nelle aree periferiche il numero degli abitanti è aumentato del 13 per cento, e nella fascia metropolitana – ma già fuori città – del 35 per cento.

“Un’espansione periferica sregolata contribuisce alla segregazione urbana e all’isolamento di ampi settori della popolazione a cui manca l’accesso ai servizi di base”, ha avvisato il Serpaj.

Un totale di 153.000 uruguayani vivono in 412 insediamenti, 300 dei quali a Montevideo, secondo le ultime stime dell’Istituto nazionale di statistica (1998).

Ma non tutti sono come El Monarca. Quasi tutti crescono in modo caotico ai margini della città, costituiti da squallide baracche di lamiere, cartone e legno. Sono i “cantegriles”, un’ironica allusione al Cantegril Country Club, l’esclusivo stabilimento termale di Punta del Este.

Sovraffollamento, violenza domestica, giovani intrappolati in droga e delinquenza, bassi livelli di insegnamento e mancanza totale di un accesso ai servizi di base sono moneta corrente in queste baraccopoli, dove gli abitanti precipitano nella più totale emarginazione.

L’ultima crisi economica ha aggravato i problemi di alloggio in Uruguay, già in crescita a partire dalla dittatura militare (1973-1985).

Questo paese di 3,2 milioni di abitanti ha subito una recessione economica tra il 1999 e il 2002, quando crollò il sistema finanziario, la disoccupazione sfiorò il record storico del 20 per cento, il salario si svalutò e le riserve internazionali praticamente scomparvero.

Oggi, dopo il costante recupero registrato sin dal 2003, la disoccupazione è scesa a poco più del 13 per cento degli attivi.

Il Serpaj calcola che, per il 20 per cento della popolazione povera, l’incidenza degli affitti sulle entrate familiari è aumentata del 30 per cento dal 1987. Allo stesso tempo, gli sfratti sono saliti moltissimo, secondo i dati della Corte Suprema di giustizia.

L’Università della Repubblica stima un deficit di 80.511 alloggi. Per abbatterlo, entro i prossimi 20 anni, ci vorrebbe un investimento annuale di 270 milioni di dollari.

L’ultimo censimento ha inoltre rivelato che quasi il 20 per cento dei 775.499 alloggi uruguayani è in uno stato di sovraffollamento.

Nel 1999, il governo ha firmato un accordo con la Banca interamericana per lo sviluppo (BID) per creare un Programma di integrazione degli insediamenti irregolari. L’obiettivo era migliorare la qualità della vita e assicurare l’integrazione urbana e sociale degli abitanti. Fu anche proposto di regolarizzare la situazione di almeno 10.000 nuclei familiari.

Ma non tutti gli insediamenti hanno i requisiti per usufruire del piano: devono essere precedenti al 1996, trovarsi in terreni pubblici e non privati, in zone non soggette a inondazioni e in città di più di 10.000 abitanti.

Degli 81 milioni di dollari consegnati dal BID, ne sono stati utilizzati 26 milioni, per 70 insediamenti regolarizzati.

I rappresentanti del nuovo governo di sinistra presieduto da Tabaré Vázquez, in carica dal 1 marzo, promettono di trovare un alloggio alle persone che vivono negli insediamenti, verso zone urbane spopolate della capitale, dotate dei servizi di base come acqua, elettricità, fognature e trasporti.

In Uruguay si ripete, su scala minore, la stessa realtà di molti paesi poveri.

Nel 2001, 924 milioni di persone nel mondo vivevano in insediamenti precari, e il numero potrebbe salire a 1,5 miliardi per il 2020, secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu).

Il traguardo numero 11 degli Obiettivi di sviluppo del millennio, stabiliti dall’Assemblea Generale dell’Onu a settembre 2000, si propone di “ottenere entro il 2020 un miglioramento significativo della vita di almeno 1 miliardo di abitanti degli insediamenti”.

Tra gli obiettivi del millennio c’è poi l’impegno a garantire entro il 2015 l’educazione universale per bambini e bambine e ridurre della metà, rispetto al 1990, la percentuale di popolazione povera, affamata e delle persone senza accesso all’acqua potabile.

Nel frattempo, l’autogestione e la solidarietà sembrano la sola via d’uscita per chi vive in quartieri come El Monarca.

O almeno così conclude El Viejo. Appoggiato ad un improvvisato bastone, fa notare ai visitatori la frase dell’insegna posta all’entrata del suo giardino, che secondo lui definisce lo spirito della comunità: “Uomini di lavoro e di rispetto”.